Lettori fissi

martedì 3 novembre 2009

Orazione 25 aprile 2006 Camerino

1. mi pare di poter dire che da alcuni anni la celebrazione del 25 aprile ha perso (se mai l'ha avuto) quel carattere di stanca ritualità che alcuni critici non sempre disinteressati le rimproveravano. anche questo 25 aprile, insomma, è vissuto con uno spirito di forte partecipazione, con una tensione morale che testimonia la consapevolezza dell'attualità di questa data e della vitalità per il nostro presente degli ideali e dei sacrifici che animarono la lotta di liberazione dai nazifascisti.
da più parti viene invocata l'esigenza di salvagurdare e tramandare alle giovani generazioni la memoria di quella lotta e di quei sacrifici. è una giusta preoccupazione; tanto più, infatti, che il ricordo di quelle vicende è sottoposto da alcuni anni al tentativo di confonderne e falsificarne il valore. io però penso che se vogliamo che quegli ideali restino vitali (cioè capaci di generare nel presente) è necessario che i giovani (soprattutto), e il popolo italiano nel suo insieme se ne riapproprino in modo attivo; non li considerino cioè solo come una realtà del passato, ma li reinventino e li traducano nell'azione rivolta ad affrontare i grandi problemi del nostro presente. è questo, io credo, l'obiettivo cui ha teso il Presidente della repubblica Ciampi in tutto il suo mandato, e di ciò credo tutti dobbiamo rendergli grazie.
l'attualità della Resistenza, d'altra parte, è testimoniata dal fatto che proprio nei momenti di svolta più significativi e drammatici della nostra storia republicana, il popolo italiano e le giovani generazioni abbiano sentito il bisogno di tornare ad incontrare la resistenza (penso al 1960 e al 1968), per ristrovare la sorgente nella quale ridefinire se stessi e i propri doveri nel presente.
è stato quindi giusto dedicare una parte del programma di queste celebrazioni ai movimenti giovanili e al loro rapporto (anche problematico) con la resistenza, poiché questa riflessione ci permette di vedere meglio come il 25 aprile e la lotta di leberazionecostituiscano un costante riferimento nei momenti critici della nostra storia contemporanea.
d'altra parte questo patrimonio morale va difeso perché, come dicevo pocanzi, in questi anni abbiamo assistito al tentativo di cancellare il significato della lotta di liberazione, di negarla, mamometterla e così falsificarla. questo tentativo ha uno scopo preciso: separare nella coscienza civile il legame tra antifascismo e istituzioni repubblicane, come premessa per arrivare alla manomissione della costituzione e dell'unità stessa del paese.
questo tentativo si fonda innanzitutto su un'insidiosa campagna propagandistica tendente a omologare i partigiani e i fascisti; a aquesto scopo si usano di solito due argomenti: a) i morti sono tutti uguali, meritano tutti pietà e non è giusto distinguere tra i caduti di una parte e i caduti della parte opposto perché tutti hanno combattuto per delle ragioni che ritenevano giuste; b) la resistenza è stato un fenomeno trascurabile (l'italia è stata liberata dagli alleati) e ha avuto le sue pagine nere.
al primo pseudo-argomento (che ha purtroppo contrubuito a produrre alcune vergognose leggi equiparatrici) bisogna rispondere che un'omologazione è inaccettabile, perchè se è vero che ovunque vi furono persone che si battevano con onestà d'intenti, è vero però anche che non si possono confondere i torti e le ragioni, mettendo sullo stesso piano coloro che erano per la dittatura, che cooperavano attivamente alla barbarie dei campi di sterminio, che si erano macchiati della vergogna delle leggi razziste con coloro che si battevano contro tutto ciò e perlacreazione di una società libera dal pregiudizio razziale, solidale e rispettosa delle minoranze.
non possiamo, in altre parole, dimenticare che se avessero vinto loro l'europa intera sarebbe diventata un immenso campo di concentramento, dominato dalla razza superiore dei signori ariani, mentre interi popoli sarebbero stati ridotti in schiavitù.
al contrario, ciò per cui si sono battuti i partigiani è una società veramente libera per tutti, compresi gli indifferenti o gli avversari della democrazia, come scrive significativamente piero calamandrei in un articolo apparso sulla rivista il ponte già nel1945. ecco ciò che rende incomparabili i due campi e che non potrà essere cancellato.
quanto al secondo argomento, penso con molta serenità si possa dire che ferma restando la gratitutdine di tutti gli italiani per il contributo decisivo degli eserciti alleati alla liberazione del paese, la Resistenza sia stata però un fatto importante sia dal punto di vista militare - come ampiamente riconosciuto dagli stessi comandi militare alleati - sia sul piano politico e morale.
se vogliamo comprendere fino in fondo il valore etico di quella esperienza dobbiamo innanzitutto riflettere sul fatto che un intero popolo e ogni individuo singolarmente furono messi improvvisamente di fronte alla necessità di scegliere da quale parte schierarsi dopo la tragedia dell'otto settembre. per capire meglio il significato di quella situazione dobbiamo considerare che di norma questa scelta non è richiesta poiché esiste un'autorità (lo stato in tutte le sue articolazioni) che determina l'indirizzo generale entro il quale l'operare individuale viene naturalmente incanalato. la drammaticità di quella scelta risultò tanto maggiore per gli che per oltre venti anni erano stati cresciuti dalla propaganda al mito del condottiero infallibile, dell'uomo della provvidenza al quale la nazione poteva affidarsi fiduciosa, al credere, obbedire, combattere.
per questo coloro che scelsero di schierarsi contro i nazisti e i fascisti lo fecero con un gesto che esaltava il riconquistato sentimento di responsabilità individuale e quindi esprimeva la libertà che nasce dalla coscienza di un dovere autonomamente determinato, liberamente scelto, e non passivamente subito. altro che morte della patria, in quel frangente il sentimento patriottico è in realtà risorto!
i giovani che 61 anni fa hanno conquistato con il loro sacrificio la libertà di cui ancora oggi godiamo, erano consapevoli di tutto questo, come dimostrano le lettere dei condannati a morte della Resistenza, dove si trova - pur di fronte alla propria imminente fine individuale - uno slancio fiducioso verso l'avvenire, verso quel domani che si sa, con la certezza che viene dall'intima convinzione di stare dalla parte giusta, è destinato a realizzarsi grazie al proprio sacrificio. come è scritto nella lettera che Achille Barilatti, partigiano maceratese del gruppo Nicolò, fucilato di fronte al cimitero di Muccia, medaglia d'oro al valore militare, scrive alla madre: "mamma adorata, quando riceverai la presente sarai straziata dal dolore. (...) non piangere mamma, il mio sangue non si verserà invano e l'Italia sarà di nuovo grande."
no, quel sangue non è stato versato invano! esso ha contribuito a dare alla patria istituzioni libere e a restituirle l'onore in campo internazionale, un onore compromesso da benti anni di dittatura, da guerre sciagurate e criminali, dalla complicità nella persecuzione razziale.
contrariamente a quello che comunemente si pensa anche nella nostra provincia la resistenza ha dato un contributo non trascurabile a questa lotta e nei 10 mesi che separano l'otto settembre '43 dalla liberazione del luglio '44, ha pagato un elevato tributo di sangue che porta i nomi di Montalto, Chigiano, Valdiola, Braccano, Morico, Apiro. la città di Camerino ha subito in particolare lutti gravissimi e gli eccidi di Morro e Capolapiaggia. quest'ultimo, se non erro, rappresenta la strage di civili più sanguinosa che sia stata perpetrata nelle Marche.
anche dal punto di vista militare il contributo delle formazioni partigiane della provincia di macerata e delle popolazioni che le sostenevano è stato significativo come riconosce lo stesso comando militare tedesco.
dunque la lotta partigiana nel suo insieme e nella nostra provincia è stato un importante fattore di riscatto civile e ha contribuito al successo militare sui nazifascisti.
ma la resistenza è stata soprattutto la fucina da cui hanno tratto vigore e legittimazione le istituzioni repubblicane e la Carta Costituzionale, da cui è scaturito il progresso civile e materiale del popolo italiano e la scelta di contribuire alla formazione dell'Europa, che rappresenta oggi il nostro orizzonte.

quest'anno ricorre il sessantesimo anniversario della repubblica, voluta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946. questa ricorrenza ci spinge ad approfondire la riflessione sul nesso tra lotta di liberazione e istituzioni repubblicane, per capire dove va la nostra comunità, quali sono i pericoli che la minacciano e quali valori dobbiamo saper rivitalizzare.

è nella resistenza alla dittatura fascista durante il ventennio prima e nella lotta di liberazione contro il nazifascismo poi che matura in tutte le formazioni antifasciste l'aspirazione a dare vita, una volta riconquistata la libertà, ad istituzioni radicalmente nuove (quindi non si trattava di effettuare una semplice restaurazione dello stato liberale prefascista), autenticamente democratiche e repubblicane. ciò significava che lo stato avrebbe dovuto innanzitutto essere liberato dall'ipoteca di una monarchia fellona, complice della dittatura fascista e delle sue disastrose guerre coloniali e d'aggressione. uno stato quindi in grado di garantire le quattro libertà fondamentali dei moderni (la libertà personale, d'opinione, di riunione e di associazione) e con esse l'esercizio effettivo della democrazia. che cosa intendevano i costituenti per democrazia? secondo una definizione classica la democrazia è il potere di prendere decisioni collettive (ciò vincolanti per tutti) esercitato dal popolo, ossia da tutti i cittadini mediante la somma di libere scelte individuali. il principio democratico comporta innanzitutto il riconoscimento della cittadinanza a tutti gli individui, senza distinzioni di genere o d'altra natura. in effetti questo è anche il sessantesimo del suffragio femminile, evento da cui ha preso le mosse il processo di liberazione ed emancipazione che ha fatto enormemente progredire il paese nel suo complesso sia sui piani civile e culturale che su quelli materiale ed economico.
ora dobbiamo domandarci: che ne è di quei principi nella concretezza della nostra vita a sessanta anni dalla loro fondazione?
secondo la deterministica e pessimistica previsione di Polibio, la democrazia tende naturalmente a degenerare nelle mani dei nipoti dei suoi fondatori: in altre parole due generazioni, 50, 60 anni circa secondo i nostri standard. secondo questa teoria la democrazia degenera nella oclocrazia (il potere manesco, una sorta di tirannia della plebe) nella quale il popolo cade ad opera di ricchi corruttori che lo ingannano e lo inorgogliscono con lusinghe.
a che punto siamo nella nostra storia civile? è reale un rischio degenerativo simile o diverso?
certo, potremmo facilmente confortarsi osservando che esistono democrazie (quella americana) da ben più di due generazioni e quindi non vi è nessuna necessità inderogabile per noi di vedere degenerare la nostra. tuttavia non possiamo trascurare che la nostra storia nazionale è più recente e fragile e il senso dello stato generalmente più debole. inoltre è innegabile un senso di frustrazione diffusa e timori ricorrenti per la tenuta democratica del paese.
insomma, a che punto siamo? cosa dobbiamo temere, cosa dobbiamo sperare?
io penso che i motivi di speranza siano nonostante tutto più forti delle paure, poiché il gusto della libertà in tutte le sue espressioni è un piacere contagioso, che una volta assaggiato conquista chiunque.
quindi se è vero che la costituzione era il programma politico della Resistenza, la repubblica democratica che ne è scaturita è diventata davvero nella quale tutti (o quasi) si riconoscono, come aveva giustamente previsto calamandrei.
tuttavia sbaglieremmo a considerare la democrazia un fenomeno autoincrementale e a non vedere i rischi che incombono. forse non si tratta di rischi di un rovesciamento in senso stretto della democrazia, ma certo di un suo svuotamento.
infatti le istituzioni non vivono in un vuoto pneumatico, ma sono sottoposte alle sollecitazioni della storia e dei suoi sconvolgimenti. e il nostro è un tempo di grandi sfide: la crescita delle disuguaglianze (non solo economiche, ma anche culturali), il terrorismo e la guerra, il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, ecc.
di fronte a questi rischi è indispensabile mantenere fermi sul piano culturale e della coscienza civica gli elementi fondanti delle istituzioni repubblicane e democratiche, a cominciare dai concetti di libertà e uguaglianza. dicevo prima che la democrazia è il potere di prendere decisioni collettive da parte del popolo mediante la somma di libere scelte individuali di tutti i cittadini. in questa definizione ricorrono due espressioni: tutti i cittadini e libere scelte, che corrispondono in effetti alle nozioni di uguaglianza e libertà. essi sono in effetti i sostantivi che indicano i valori ultimi cui si ispira la democrazia , ma sono anche le condizioni senza le quali non si dà e non si conserva la democrazia. ma noi dobbiamo domandarci: quando si è liberi? che cosa vuol dire essere uguali? che rapporto c'è tra questi due sostantivi?
per definire l'uguaglianza, ad esempio, il pensiero greco classico utilizzava la parola isonomìa, che può essere tradotto con uguaglianza di legge, che non vuol dire solo, come di solito intendiamo noi, uguaglianza di fronte alla legge, ma anche attraverso la legge, dal che si ricava che la legge deve sempre restituire e promuovere l'uguaglianza, che diventa quindi un fine dello stato.
riguardo al nesso tra questi due sostantivi così importanti, mi pare che questa idea antica di uguaglianza (uguali attraverso la legge) si colleghi al nesso che l'articolo 3 della Carta Costituzionale impone alle istituzioni di promuovere l'uguaglianza per rendere effettiva la libertà.
se è vero infatti che la libertà è prima di tutto libertà di scelta degli scopi individuali, essa implica la possibilità di disporre dei mezzi necessari alla realizzazione di quei fini, pena la restrizione di tutte le libertà, allora la diseguale distribuzione dei mezzi, tanto diseguale che alcuni ne sono privi, rende vuota la libertà. perciò la politica dei diritti sociali che dia pari opportunità al figlio dell'operaio e a quello del professionista, non è incoerente con il principio liberale, ma è da esso richiesto. anche per questo è così importante garantire la giustizia sociale, combattere la precarietà, l'emarginazione, promuovere l'inclusione sociale.
per essere veramente liberi è però anche necessario che le nostre deliberazioni siano veramente autonome. per questo è necessario che lo spazio del dibattito pubblico in cui si forma la pubblica opinione (il vero sovrano negli stati democratici)sia debitamente presidiato per garantire il suo corretto funzionamento. anche qui entra in gioco l'uguaglianza: essendo la democrazia dialogo tra punti di vista diversi per la formazione di un orientamento, è necessario innanzitutto che le parole vengano usate con onestà, ma anche che non ci sia un divario eccessivo nel loro possesso: poche parole, poche idee. infatti, "è solo la lingua che fa eguali - scrive don Milani - eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui" ecco perché una scuola egualitaria è condizione di democrazia.
ma siccome la democrazia non ha verità assolute da affermare e il suo compito è piuttosto quello di rendere confrontabili e com-patibili le diverse prospettive valoriali, allora è necessario che nel dibattito pubblico sia sempre presente lo spirito di ricerca sia l'affermazione di verità indiscutibili sia la dittatura dell'opinione che rende impossibile il vero confronto e insieme obbligatoria l'opinione della maggioranza. invece va sempre affermato che la verità è sempre in causa e non esiste una vox populi vox dei che trasformerebbe la voce della minoranza in vox diaboli. per questo il principio della laicità del diritto pubblico - mirabilmente sostenuto dal nostro Alberico gentili da San Ginesio - e dello stato non va considerato un residuo ottocentesco, ma un valore fondante delle libere istituzioni.
questo insieme di condizioni sfociano a mio modo di vedere in un elemento senza il quale nessuna democrazia può conservarsi. l'esistenza di individui socialmente responsabili, cioè individui - come scrive Bettelheim - che hanno il senso della propria identità, la convinzione di essere persone uniche, capaci di rapporti durevoli e profondamente significativi con altre persone e quindi responsabili delle proprie decisioni e in grado di assumerle. al polo opposto si trova la massa informe che è alla base dei regimi totalitari del secolo scorso, dominati da capipopolo a loro volta bisognosi di uomini-massa. la democrazia, perciò, proclamando l'uguaglianza non deve tendere all'omologazione, alla medietà conformistica, bensì promuovere l'autonomia e la diversità qualitativa.
anche per queste ragioni è così importante che una società sappia accogliere come un prezioso arricchimento chi viene da un'altra cultura e può innestare nella nostra società il lievito di una realtà diversa.
il nostro presente ci pone molte altre questioni che sfidano la vitalità delle istituzioni democratiche: la qualità dell'organizzazione della politica, la vita dei partiti, la salvaguardia della divisione dei poteri e dell'autonomia del potere giudiziario, ecc.
ma oggi l'accento va posto sull'impegno culturale e morale finalizzato alla riappropriazione consapevole dei valori fondanti della convivenza democratica, quei valori per i quali hanno dato la loro esistenza salvatore Troilo, Achille Barilatti e tutti gli altri, nella certezza che quegli ideali incarnano di una più nobile umanità.
con questo spirito guardiamo al futuro.
viva il 25 aprile
viva la repubblica
viva la Costituzione.

martedì 25 aprile 2006

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