Lettori fissi

martedì 3 novembre 2009

discorso Chigiano 6 luglio 2008


Il ricordo delle vittime delle stragi nazifasciste che ebbero questi luoghi come scenari nella primavera del 1944 coincide quest’anno con il 60^ della Costituzione repubblicana.
Questa circostanza, però, più che celebrazioni deve sollecitare riflessioni: il nostro è un tempo di bilanci e esami di coscienza. Gli autorevoli gridi d’allarme che da più parti vengono lanciati sullo stato della nostra vita democratica richiedono una severa riflessione che – alla luce dei caratteri che i costituenti vollero dare alle istituzioni italiane nate dalla lotta di liberazione – metta a fuoco la condizione reale della nostra vita civile e la qualità effettiva della pratica democratica nel nostro paese.
Ciò che allarma molti è, mi pare , il rischio di un distacco definitivo tra i cittadini e l’esercizio attivo delle libertà politiche e il conseguente svuotamento della pratica democratica ridotta a mera procedura. In alternativa o meglio in affinamento a questo fenomeno di inaridimento democratico si percepisce il rischio di una deriva plebiscitaria e populistica. La sclerosi della vita politica, infatti, finirebbe per configurare un assetto sociale e culturale caratterizzato da passività , perdita di autonomia e responsabilità civile, cioè precisamente il venir meno delle precondizioni che rendono possibile la democrazia intesa come il potere da parte del popolo di prendere decisioni collettive mediante la somma di libere scelte individuali di tutti i cittadini.
Prima di procedere in questo ragionamento, permettetemi però di dedicare un ricordo a Emilio Ferretti, il comandante “Ferro”. Lo scorso anno lui era qui per partecipare a questa stessa celebrazione: fu il suo ultimo impegno pubblico perché nei giorni immediatamente successivi fu colpito dal male che lo ha portato alla morte. Il 21 luglio è stata organizzata una cerimonia ad Ancona nel primo anniversario della morte. Ma credo sia giusto, e hanno fatto bene i Presidenti Pantanetti e Re a cogliere questa occasione, ricordarlo anche oggi.
Chi era Ferro? Nasce nel 1923 in una famiglia antifascista – il padre è un macchinista licenziato per motivi politici dal regime – . Operaio del cantiere navale di Ancona aderisce al Pci clandestino ed è imprigionato in seguito ad una manifestazione per la scarcerazione degli antifascisti dopo il 25 luglio ’43. dopo l’8 settembre entra nella resistenza, organizzando e dirigendo i GAP del capoluogo prima e successivamente organizzando un gruppo partigiano in montagna (il gruppo “Ferro”) che opera tra Cingoli e il Mote San Vicino. Dopo la liberazione prosegue il suo impegno militare (dovrebbe essere paracadutato oltre le linee nemiche nella zona di Bolzano, ma la guerra ha termine alla vigilia di quella missione) Tornato ad Ancona svolge numerosi incarichi politici, nell’Anpi, di cui diviene segretario provinciale, nel Pci e nella Cgil. In seguito assumerà vari incarichi nella federmezzadri e poi nell’amministrazione provinciale di Ancona di cui diviene assessore nella Giunta Borioni. Successivamente ha ricoperto la carica di Presidente regionale dell’Anpi.
Nella sua biografia, come in quella di tanti altri partigiani, si percepisce una continuità di orientamento tra la partecipazione alla Resistenza e il successivo impegno politico e civile. Nelle occasioni in cui ho avuto modo di lavorare al suo fianco sono sempre stato colpito sia dalla determinazione sia dalla elegante compostezza con la quale affrontava ogni situazione. In quella serena determinazione vi era, certo, la sicurezza di chi ha affrontato ben altre prove, ma anche, credo, la consapevolezza della natura dell’impegno per lo sviluppo democratico che non permette intemperanze, ma semmai richiede la perseveranza del lavoro di lunga lena, dell’impegno che si rinnova quotidianamente anche nei compiti apparentemente più quotidiani e umili, perché la libertà e la democrazia si riconquistano ogni giorno nella loro pratica concreta.
Insomma, nella partecipazione alla lotta partigiana, ma, paradossalmente vorrei dire ancora di più nell’impegno politico e civile repubblicano, ferretti ha impersonato quello sforzo collettivo per rendere effettiva la partecipazione popolare alla vita delle istituzioni, condizione non eludibile per un autentico sviluppo democratico. Se è vero infatti – come scrisse Calamandrei – che la libertà ha una fragranza e un fascino che finisce per conquistare anche coloro che l’hanno combattuta, nondimeno la democrazia è un assetto istituzionale estremamente fragile, per nulla destinato a svilupparsi in modo inesorabilmente lineare e necessariamente accrescitivo.
Sbaglieremmo dunque a sottovalutare i rischi che si manifestano nel nostro presente.
Infatti, le istituzioni non vivono in una sorta di vuoto pneumatico, indifferenti e invulnerabili alla evoluzione delle condizioni storiche e degli assetti sociali, economici e culturali.
I costituenti avevano ben presente il nesso tra democrazia e assetti sociali, come dimostra la formulazione dell’articolo 3 della Carta Costitutzionale, dove nel prim comma si afferma la pari dignità e uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, mentre nel secondo comma si affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza e impediscono l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
La Costituzione, dunque, non solo considera come un dato di fatto l’esistenza di differenze di carattere sociale ed economico, ma ritiene anche che tali differenze possano incidere sulle condizioni democratiche, trasformandosi in ostacoli per la libertà e l’uguaglianza consacrata nel primo comma.Intervenendo nel dibattito in aula, Lelio Basso e Amintore Fanfani, pure da posizioni politiche così diverse, esplicitarono ulteriormente questo principio. Fanfani, in particolare, dichiarò che se la rivoluzione francese dell’89 aveva affermato l’uguaglianza giuridica dei cittadini di uno stesso Stato, l’esperienza della vita sociale dell’ultimo secolo aveva dimostrato che questa semplice dichiarazione non è sufficiente a realizzare questo programma.
Potremmo dire che attraverso l’articolo 3 della nostra Costituzione rivive in tutta la ricchezza delle sue implicazioni il concetto di isonomia che era alla base della vita delle poleis greche, il quale non vuol dire solo, come siamo abituati a pensare, uguaglianza di fronte alla legge, ma anche uguaglianza attraverso la legge. Senza un certo grado di uguaglianza tra i cittadini, infatti, non garantita neppure la libertà: per questo lo Stato, attraverso la legge; ha questo compito. Lo stesso pensiero liberale classico, finirebbe per contraddirsi senza un certo livello di uguaglianza che renda effettiva la libertà. Se è vero infatti che la libertà è prima di tutto libertà di scelta degli scopi individuali, essa implica la possibilità di disporre dei mezzi necessari alla realizzazione di quei fini, pena la restrizione di tutte le libertà. E allora la diseguale distribuzione dei mezzi, che fosse così che alcuni ne fossero privi, renderebbe vuota la libertà. Perciò la politica dei diritti sociali che dia pari opportunità al figlio dell'operaio e a quello del professionista, non è incoerente con il principio liberale, ma è da esso richiesto. Anche per questo è così importante garantire la giustizia sociale, combattere la precarietà, l'emarginazione, promuovere l'inclusione sociale.
Che l’uguaglianza e la libertà siano condizioni per una vera vita democratica lo dicono anche i padri della più antica democrazia esistente, quella americana. In particolare la tradizione jeffersoniana persegue l’ideale di una comunità costituita da individui responsabili, consapevoli e perciò capaci di autogovernarsi perché a) economicamente non subalterni; b) socialmente emancipati e consapevoli di sé; c)intellettualmente colti e attivamente partecipi al dibattito pubblico. Non a caso, contrapponendo la situazione americana (o forse la sua idealizzazione) alla condizione delle classi lavoratrici in europa, gli esponenti democratici erano soliti deprecarne non tanto la povertà, quanto l’esclusione “dalla vita civica, dal mondo della cultura, da tutto quanto stimola la curiosità intellettualee amplifica gli orizzonti spirituali (…) viste dall’America, le classi lavoratrici in Europa non vivevano nella miseria, ma in una virtuale schiavitù.” (C. Lasch, La ribellione delle élite) non a caso Henry Adams fa dire ad uno dei personaggi del suo romanzo: “Democrazia significa che le masse sono innalzate a un livello di intelligenza superiore a prima. Tutta la nostra civiltà mira a questo fine.”(cit. da C. Lasch)
Come non vedere nei principi costituzionali e nell’intesa vita democratica dei primi decenni repubblicani lo sforzo di tradurre questo stesso progetto democratico nella concreta realtà dell’Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura fascista (e quindi segnata dai noti ritardi e dalla arretratezza della sua storia nazionale, con tutto il fardello rappresentato dalla ristrettezza classista del nuovo stato e dalla conseguente estraneità delle masse contadine e cattoliche, dalle insufficienze civili e dalle tendenze sovversivistiche delle sue classi borghesi, nonché da ultimo dal peso della dittatura fascista e del suo esperimento di inserimento passivizzante e reazionario delle masse nella struttura dello stato totalitario). Lo sforzo che le organizzazioni politiche e sindacali di massa compirono per emancipare le classi lavoratrici dalla sottomissione (abbiamo insegnato al cafone a non togliersi il cappello di fronte al padrone, come diceva di Vittorio) e dallo sterile ribellismo per conquistare la consapevolezza dei propri diritti e la maturità di una prassi democratica che vede nel conflitto sociale un fattore di integrazione civile, rafforzò la democrazia e permise al paese uno straordinario sviluppo civile e sociale.
Qual è la situazione oggi? Molte cose sono cambiate, soprattutto nella coscienza collettiva e nella prassi sociale. La crisi e il collasso del sistema partitico ha travolto molte speranze e molte conquiste. Ma non tutto può essere spiegato con la manchevolezze soggettive del caso italiano, anche perché fenomeni analoghi si possono osservare in molti altri paesi. Sarebbe sconsiderato, ad esempio, ignorare la poderosa ridefinizione dei rapporti di forza tra poteri e saperi verificatasi negli ultimi decenni e l’influenza che tutto ciò ha avuto sul potere politico e sul sovrano che formalmente lo detiene: il popolo.
Prendiamo in considerazione ad esempio la sfera economica: “quando il denaro parla tutti sono costretti ad ascoltare, scrive un sociologo americano. Un solo dato per misurare le dimensioni del problema:delle 100 più grandi entità economiche del mondo 51 sono corporations e 49 stati nazionali: la General Motors, per esempio, con un fatturato di 176 miliardi di dollari precede 27 stati nazionali. In proposito un saggio apparso su The economist ha osservato che le imprese 2° causa del loro comando sulle risorse hanno un be maggior peso politico dei singoli cittadini (e) l’uguaglianza politica è messa in discussione da un eccesso di ricchezza in seguito al quale più denaro comporta più potere politico”. Può sorprendere che in questa situazione si verifichi una scalata al governo politico da parte del mondo degli affari, e conseguentemente il cittadino si senta impotente e quindi indotto a disertare un campo nel quale si sente ininfluente.
Penso di non, tanto più che i questi anni abbiamo assistito ad un progressivo discredito gettato sul valore e l’efficacia dell’agire collettivo. I mezzi di comunicazione di massa, basti leggere cosa scrive a questo proposito ad esempio un osservatore acuto come Z. Bauman, ci propongono sempre un approccio individuale alla soluzione dei problemisocio-economici; con l’effetto di colpevolizzare e rendere passivi sul piano politico tutti coloro che non riescono a trovare la loro soluzione come hanno fatto invece i loro modelli massmediatici. Cito un solo dato per dare la misura di questo processo: dopo la seconda guerra mondiale nei paesi capitalistici vi era un iscritto al sindacato ogni tre lavoratori,ora ce n’è uno ogni 11. a ciò si aggiunga lo scadimento del discorso pubblico: una democrazia vive se c’è un intenso scambio di opinioni, ma affinché ciò si verifichi , è necessario innanzitutto che le parole vengano usate con onestà, ma anche che non ci sia un divario eccessivo nel loro possesso: poche parole, poche idee. infatti, "è solo la lingua che fa eguali - scrive don Milani - eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui" ecco perché una scuola egualitaria è condizione di democrazia. Altrimenti il dibattito viene sostituito dal formarsi di due poli: la classe dei parlanti e quella dei plaudenti, e , soprattutto, invece di essere un vero dibattito, ciò uno scambio che ci permette di condividere idee ed esperienze sollevandoci dal mero livello delle opinioni cioè di punti di vista sorti da impressioni casuali e parziali, diventa un soliloquio in cui ognuno è soddisfatto di esibire la propria doxa, (quanto più essa è condivisa dai più: non viviamo forse nell’epoca dei sondaggi?) disperando che si possa costruire una verità condivisa. In questo senso è forte la tentazione di fare delle parole solo strumenti di pubblicità e propaganda.
Anche da questo insieme di fenomeni , temo, venga una forte spinta all’usura delle parole del loro valore di strumenti d comprensione e di comunicazione e del discorso pubblico in particolare, scoraggiando e allontanando anche così dalla partecipazione.
Mi fermo qui nell’elencare questo insieme di fenomeni, ma si potrebbe continuare a lungo ad esempio considerando l’effetto negativo che ha il progressivo svuotamento delle assemblee elettive come luoghi nei quali si manifesta in modo plastico la rappresentanza tra la volontà del sovrano democratico e la decisione politica.
Nel loro insieme tutti questi fenomeni non fanno che contribuire a indebolire il rapporto tra il popolo e lo Stato. E quindi a allargare lo spazio per il populismo, che a mio modo di vedere consiste essenzialmente nella contrapposizione organica tra popolo e élite, tra popolo e istituzioni. In questo senso il populismo potrebbe essere indifferente rispetto alla distinzione tra destra e sinistra, perché la sua vera natura è quella di suscitare nel popolo un complesso di inferiorità e perciò di rivalsa nei confronti di tutti quei poteri che in qualche modo pretendono di limitare e disciplinare le pulsioni popolari. Ecco perché il populismo ha sempre bisogno di un capro espiatorio da indicare come il nemico e il responsabile da combattere: esso può essere di volta in volta l’intellettuale, il burocrate, il magistrato, il politico, naturalmente. Ecc. il populismo è una contraffazione del principio democratico, che tende invece a far diventare il popolo stato, non a contrapporre l’uno all’altro in modo organico. In questo senso il populismo sfrutta il deficit di democrazia di un ordinamento e lo esaspera accrescendo in questo modo la sua influenza come dimostra plasticamente la crisi delle istituzioni europee che sono sorte programmaticamente quasi con l’obiettivo di fare a meno del popolo, e per questo sono più esposte di altre alla critica populistica di essere funzionali solo ad una élite (gli euroburocrati, appunto).
Purtroppo il populismo, e questa considerazione la dobbiamo nientemeno alla analisi di Tocqueville, tende per sua natura a travolgere i limiti dello stato di diritto, a negare il fondamento stesso di quella divisione dei poteri che consente di temperare le spinte che possono provenire in alcuni momenti dal sovrano democratico. Come è nell’assetto repubblicano nato dalla resistenza, nel quale la democrazia è associata alla costituzione cioè ad un insieme di regole e procedure che delimitano in modo inderogabile la decisone politica.
I fenomeni di crisi di molti paesi europei di fronte alle sfide della globalizzazione e in particolare al saliente storico di una società multiculturale e multietnica, dipendono in larga misura da queste tendenze. Il discorso è particolarmente appropriato per il nostro paese, purtroppo.
La soluzione di questi problemi non è certo facile né a portata di mano, ma è anche chiara nel suo contenuto: la democrazia potrà vincere la sua sfida soltanto se si riorganizzerà e riprenderà la strada della promozione della partecipazione attiva e consapevole del popolo alla vita pubblica.
Se non riusciremo in questo intento, purtroppo, temo varrà per noi il modello rappresentato da Aristofane nella commedia “I cavalieri”, dove si vede il salcicciaio Agoracrito che viene convinto a candidarsi alla guida della città proprio in ragione di quelli che noi chiameremmo vizi (ignoranza, volgarità, sfrontatezza): il consiglio che gli viene dato è infatti di continuare a fare quello che fa di solito:” rimescola e insacca insieme le cose pubbliche d’ogni genere, e accattivati sempre il popolo,blandiscilo con parole ben cucinate . Tutto il resto del demagogo ce l’hai. Voce oscena oscure origini, volgarità. Possiedi tutto quello che ci vuole per governare.”
Potremmo dire che Agoracrito l’esatto opposto di quell’ideale di responsabilità ed eccellenza che spinsero tanti giovani a prendere la strada dei ribelli per la libertà.
Non sembri una fuga nella sfera astratta della morale, ma io credo che di fronte a queste sfide sia prima di ogni altra cosa indispensabile recuperare quella carica etica con tutto il valore che essa ha per la formazione di individui socialmente responsabili, cioè individui - come scrive Bruno Bettelheim - che hanno il senso della propria identità, la convinzione di essere persone uniche, capaci di rapporti durevoli e profondamente significativi con altre persone e quindi responsabili delle proprie decisioni e in grado di assumerle. Al polo opposto si trova la massa informe che è alla base dei regimi totalitari del secolo scorso, dominati da capipopolo a loro volta bisognosi di uomini-massa. La democrazia, infatti,, proclama l'uguaglianza ma non tende all'omologazione, alla medietà conformistica, bensì promuove l'autonomia e l’ originalità.
Per ciascuno di noi mi auguro valgano come viatico le parole con le quali Max Weber conclude il suo discorso sulla Scienza come professione: “anelare e attendere non basta, ci comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al compito quotidiano, nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile quando ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene i fili della sua vita.”

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