Lettori fissi

martedì 3 novembre 2009

LA MORTE DELLA PYTHIA

A MO' DI PREMESSA E AVVERTENZA

A dispetto della sua dimensione trascurabile (solo una sessantina di paginette) il racconto di Durrenmatt è molto denso e soprattutto complesso; si sviluppa come versione alternativa della tragedia sofoclea che qui naturalmente do per conosciuta: il re di Tebe Laio viene a sapere da un oracolo che verrà ucciso dal figlio che gli nascerà. Quando Giocasta sua moglie dà alla luce un bimbo il re lo fa esporre sul monte con i talloni forati (da qui il nome Edipo). Ma il pastore incaricato di esporre il bimbo lo sottrae a questa sorte, consegnandolo a Polibio re di Corinto. Il giovane diviene adulto, ma un giorno un suo coetaneo lo insulta mettendo in dubbio le sue origini. Edipo si reca a Delfi e riceve il terribile oracolo: ucciderai tuo padre e ti unirai con tua madre. Pensando di sfuggire al suo destino lascia Corinto e per caso incontra Laio e lo uccide. Si reca a Tebe, vince la Sfinge e diventa re sposando Giocasta (sua madre): l’oracolo si compie. Una peste colpisce Tebe. Edipo avvia un’inchiesta per conoscere la volontà del dio, e alla fine scopre che la peste è la conseguenza della sua colpa: Giocasta si uccide e Edipo si acceca mettendosi in cammino come mendico. La città viene contesa dai due figli maschi di Edipo (Eteocle e Polinice) che si ammazzano vicendevolmente e Creonte, fratello di Giocasta, sale sul trono. Segue la vicenda di Antigone. Ho scelto di ricostruire minuziosamente le varie scene e questo può appesantire l’esposizione, me ne scuso.
in effetti il racconto di Durrenmatt non è un’altra versione del mito di Edipo. Se mytos originariamente vuole dire racconto, la morte della Pizia è la negazione della possibilità di un racconto, cioè della narrazione di una realtà condivisa, la quale si frantuma invece in innumerevoli versioni l’una incompatibile con l’altra. La prima cosa che emerge è in effetti l’impossibilità di un logos comune che possa essere comunicabile e significativo. Il primo esito di questo processo è a prima vista del tutto negativo. Ciò che si infrange, però, non è solo la visione umana della realtà, ma la realtà stessa, poiché se è vero che l’uomo non ha abitato il mondo ma la rappresentazione della realtà che ha costruito (cioè la cultura con la quale ha elaborato e mediato il suo rapporto con il mondo) allora la frattura della capacità di costruire relazioni discorsive con le quali elaborare e condividere le esperienze, comporta la nientificazione del mondo, cioè la sua riduzione a pura contingenza. Cioè a qualcosa che esiste senza ragione né causa necessaria, a puro caso, appunto.
e qui assistiamo ad un nuovo paradossale rovesciamento: le concatenazioni di azioni e propositi che vengono narrati dai diversi protagonisti (Meneceo, Laio, Edipo, Tiresia, Giocasta e Sfinge= 6 oltre alla P. e al sottoscritto naturalmente) e che dovremmo considerare la catena causale degli eventi che ne conseguono costituisce invece un guazzabuglio indecifrabile nel quale non riusciamo a orientarci. Il mondo è più che mai un caos, e più ci si sforza di portarvi il proprio ordine (vedi Tiresia) più il caos aumenta. Le disgrazie di Edipo restano dunque senza cause, perché ogni spiegazione causale è smentita e annullata.
al contrario l’evento che a prima vista ci era apparso assolutamente gratuito e casuale (l’oracolo dispettoso della P.) risulta invece l’unico elemento permanente e compatibile in tutte le possibili varianti, e quindi l’unico elemento non casuale, necessario affinché avvenga ciò che avviene ( ma cosa in effetti avviene?) ciò che è casuale diventa qui necessario e ciò che invece si presenta come rivelazione della catena di nessi necessari che determina gli eventi, affonda nella contingenza della prospettiva autistica dei soggetti isolati, vittime di una allucinazione teoretica nella quale credono di vedere la verità, ma in realtà sono prigionieri nel labirinto della loro visione privata e parziale delle cose.
E qui appare l'altro possibile esito, meno deprimente del primo. Potremmo dire, infatti, che la questione che sta al centro della morte della P. non è se esista o no un logos comune, ma se esista o no un logos unico. Se cioè esiste la biblioteca di cui parla Deridda nell'introduzione a Lecture et la difference, cioè la biblioteca che contiene tutte le storie possibili e tutti i destini (e allora anche il giudizio della P. era già scritto) e questa biblioteca è la mente di Dio. Ovvero, questa biblioteca non esiste, e allora non c'è alcun filo che consenta di ricostruire la mappa del nostro labirinto e non ci sono neppure i soggetti che ne sono titolari, perché semmai esistono solo maschere cui tocca solo una parte in commedia). In questa prospettiva le storie semplicemente “accadono”, la loro dimensione è solo la contingenza. Non è detto però che questo esito sia necessariamente disperante, se è vero che può essere letto come la condizione e il presupposto di un'autentica fondazione della libertà, che è tale solo se non esiste un destino inderogabile. In questo senso non ha più carattere paradossale che il fondamento delle disgrazie di Edipo sia la libertà e non il destino, a cui Edipo vuole invece rimanere attaccato. E' questa l'ambiguità della nostra epoca.

LA VICENDA

Il racconto di Durrenmatt inizia con la P. che, stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, e di cattivo umore inventa di sana pianta uno oracolo per far arrabbiare quel principe di Corinto, Edipo, venuto a Delfi, claudicante, per sapere chi fossero davvero i suoi genitori. Il giovane se ne va con l’aria di uno a cui è stato annunciata davvero una disgrazia (è un credulone, pensa la P. e chissà che non faccia davvero qualche sciocchezza?).
Passano gli anni, la P. è sempre più vecchia e intollerante verso il baraccone pop che è Delfi e di anche cui lei fa parte. Ad un certo punto il gran sacerdote Merops che sovrintende il circo di Delfi le chiede di prestarsi alla richiesta di Tiresia, il veggente: far profetare al suo cliente (Creonte di Tebe) che la peste che affligge la città non cesserà fino a quando non si scoprirà il responsabile dell’assassinio del vecchio re Laio. L’attuale re è un certo Edipo, di cui la P. non si ricorda affatto. La P. accetta.
Soffermiamoci un attimo a confrontare il racconto di D. con la vicenda raccontata da Sofocle: l’oracolo non svela una verità divina, ma è il frutto della stizza e del capriccio. Nondimeno si avvera. Già così, la variazione si presenta intrigante: il divino sembra disertare il mondo, che però non perde per questo il suo carattere misterioso, arcano; si connota semmai di toni grotteschi: sono i capricci di una vecchia stizzosa che fanno il destino tragico degli uomini, ai quali in questo modo è tolta anche la grandezza del dolore provocato dalla trama oscura di voleri trascendenti; la sofferenza umana diventa così un evento insensato, frutto del caso, privato della dignità e della grandezza che gli conferisce nella tragedia di Sofocle il fatto di essere inscritto in un ordine necessario e implacabile, un ordine sovrumano che non lascia scampo.
E tuttavia, forse è troppo presto per trarre conclusioni, non solo perché la vicenda è appena all’inizio, ma anche perché i caratteri della P. che D. ci presenta fin dall’inizio hanno alcuni aspetti strani, ambigui vorrei dire: nel suo scetticismo religioso, infatti, la P. è paradossalmente fedele al motto delfico: “conosci te stesso; ella sa infatti perfettamente chi è: una cialtrona che imbonisce gli sciocchi che credono nell’esistenza di una verità remota, che possa ottenersi senza sforzo grazie alla rivelazione oracolare. Con E. però, sarà la stanchezza o il malumore come dice, lei non gioca il solito gioco ingannevole delle frasi ambigue che dicono tutto e il suo contrario. No, lo tenta con l’errore e l’orrore di una verità insopportabile: ucciderai tuo padre e ti unirai a tua madre. Queste parole sono lo scandalo (nella sua etimologia l’inciampo) che lo zoppo per antonomasia è costretto a superare diventando viandante del mondo (quindi un po’ dio un po’ filosofo) alla ricerca di se stesso o, che è lo stesso, in fuga da un se stesso insopportabile. Così la P. mette in moto un movimento veritativo che paradossalmente (ma non tanto) e involontariamente nasce dallo scetticismo.
Ma procediamo con il racconto.

A) Passa ancora del tempo e Edipo, accompagnato dalla figlia Antigone, si presenta alla P. E. narra alla P. gli avvenimenti che sono seguiti al suo oracolo secondo la nota versione di Sof. Al termine della narrazione la P. ride. Ma poi: “come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la P. ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso”.
Ecco dunque il dubbio insinuarsi in lei: come è possibile che un oracolo inventato per noia e dispetto abbia potuto avverarsi in modo così implacabile inserendosi in modo coerente con una trama di eventi, del tutto ignota alla P., e di per sé già tanto improbabile?
P. vuole capire, ha la tempra del poliziotto di tanti racconti di D. Inizia la sua indagine empirica – ovviamente rifiuta la spiegazione divina, la trama di un destino tessuto da entità sovrumane – e scopre nell’archivio del tempio di Delfi la traccia del primo oracolo quello che informava Laio che suo figlio lo avrebbe ucciso. Anche questo oracolo era in realtà un’idea di Tiresia. Così pensò di aver scoperto l’arcano il suo oracolo a Edipo si inseriva in una trama di cui era inventore Tiresia che aveva come scopo favorire la successione al trono di Tebe da parte di Creonte: infatti se Laio non avesse avuto figli il trono sarebbe passato al cognato Creonte; anche il secondo vaticinio di T. aveva lo stesso scopo: scoprire l’assassinio di Laio (E.) significava liberare il trono per Creonte.

B) a questo punto la P. si sente vicina alla morte. Iniziano le apparizioni. La prima apparizione è Meneceo “”un volto cupo e arcigno, capelli corvini, fronte bassa, occhi inespressivi, colorito terreo.”) è il padre di Giocasta e di Creonte. Un contadino inurbato, diventato impresario edile e appaltatore di lavori pubblici (in particolare della rocca di Cadmo che Laio sta costruendo). Appartiene alla stirpe degli uomini drago (gli uomini sorti di denti del drago ucciso da Cadmo. Appena spuntati da terra armati di tutto punto, vengono indotti da Cadmo a massacrarsi l’un l’altro, ne sopravvivono solo cinque che affiancheranno Cadmo nell’edificazione della città). In nonno di Meneceo è uno di questi (Udeo). Notare: anche Cadmo è indotto dall’oracolo di Delfi ad abbandonare la ricerca di sua sorella Europa per fondare Tebe). Meneceo disprezza Laio e ambisce al trono di Tebe per sé o per suo figlio Creonte. Però Creonte è ottusamente fedele al cognato. Così quando M. incontra T. concepisce, su istigazione di Tiresia un piano: far avere, tramite la P., un oracolo a L. con il quale lo si intimidisce: se avrai un figlio, ti ucciderà. Senza discendenza il regno sarebbe passato a Creonte. M. paga 50 mila talenti a Tiresia per la sua complicità. Dunque dietro a tutto vi sarebbe un sordido intrigo basato sull’ambizione e il desiderio di potere di un uomo meschino e invidioso.

C) Scompare M. e compare Laio (figura altera e regale), che riferisce a P. di aver immediatamente compreso che il mandante dell’oracolo di T. (quello appunto che gli annunciava la morte per mano del figlio) fosse M. perciò lo aveva ripagato con la sua stessa moneta: approfittando di una delle tante epidemie di peste si procura un oracolo di Delfi nel quale viene detto che l’epidemia sarebbe cessata solo se uno dei figli del drago si fosse sacrificato per il bene della città. M. è l’unico superstite di quella stirpe e quindi non ha altra scelta che buttarsi dalle mura (e non gli pesa neppure troppo farlo, perché i 50 mila talenti dati a T. per l’oracolo lo hanno fatto fallire). Pur sapendo che l’oracolo è frutto di un imbroglio, L. incomincia ad aver paura quando però nasce davvero E. L. confessa alla P. di preferire le giovani reclute alle donne e di aver sempre evitato il letto di G. che ha sposato solo per interesse, al fine di accattivarsi le simpatie del popolo (ecco un altro politico che gioca ad accattivarsi le masse e sbaglia i calcoli) però non può del tutto escludere che E. sia davvero suo figlio, concepito magari in un momento di ubriachezza. Perciò lo fa esporre. A questo punto ci troviamo di fronte ad una ulteriore versione degli stessi fatti, però ancora compatibile con quella di M. si tratta comunque di trame consapevoli, ancorché conflittuali e- come vedremo - mendaci, mentre resta curioso il modo con cui in tutto questo si sia inserito coerentemente l’oracolo del tutto inventato di P. che è diventato il tassello essenziale di una trama prodotta da volontà umane in conflitto. Come vedremo meglio in seguito, l’andamento della storia ricorda l’impossibile inchiesta sulla morte di un samurai raccontata da A. K. nel film Rashomon. Anche qui ogni testimone/protagonista narra una verità diversa ma possibile, e anche qui non ci sono innocenti; tutti sono colpevoli, ma non si tratta della colpa oggettiva della tragedia greca, né alla base della tragedia vi è un’aporia insuperabile delle cose, a questo punto della storia gli eventi tragici sono il frutto di un’insieme di volontà umane, affette dalla tracotanza dalla Hybris la colpa tipica di colui che non conosce il proprio limite, e quindi contravviene al motto delfico, in lotta tra loro. Ciononostante, questa vicenda, che si arricchisce di particolari non presenti in Sofocle non potrebbe essere ciò che in effetti è stata senza l’intervento imprevedibile (fatale si potrebbe dire) della P. che dice per gioco qualcosa che risulta essenziale al risultato. Anzi, come dirà in seguito T., “tu Pannychis (il nome della Pizia) vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i miei oracoli con fredda determinazione, con logica ineccepibile, insomma con razionalità. Ebbene devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro. Se fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile il tuo oracolo (io con la mia ragionevolezza ho messo in moto una catena di cause e di effetti che hanno dato luogo a un risultato esattamente opposto a quello che avevo in mente.” la “piccola quadrata ragione” come la chiama Nietzsche, fa ancora una volta naufragio (notare che che è una ragione maschile, ordinatrice, inferiore all'istinto e alla fantasia umorale del femminino rappresentato dalla Pizia).
Ma in questo orizzonte umano, troppo umano si potrebbe dire, la verità resta comunque irraggiungibile. Non solo perché, e lo vedremo meglio in seguito, nessuno dei protagonisti dice tutta la verità, o meglio ciascuno dice la sua verità. Tutti si presentano alla P. con la maschera che hanno indossato nel dramma; anzi sono costretti a assumerne diverse a seconda della versione fornita dal testimone di turno. Così il mondo è ridotto alla visione prospettica di chi parla. E pur essendo l’orizzonte della tragedia inscritto nella dimensione delle passioni umane – e quindi teoricamente più trasparente rispetto all’enigmaticità tipica del divino, non per questo risulta risolto il mistero della realtà, che resta indecifrabile, anche , e forse più ancora, dopo le confessioni dei testimoni protagonisti (come in Rashomon appunto). Ma oltre a ciò vi è qualcosa d’altro che resta del tutto oscuro; questo qualcosa lo potremmo definire con un ossimoro , la necessità del caso, e cioè la funzione d’ordine che assolve nella vicenda l’intervento assurdo e involontario della P.

D) compare E. giovane Nel rivederlo come era quando venne a chiedere l’oracolo, la P. comprende subito che sapeva già di non essere il figlio di Polibio e Merope (sovrani di Corinto). Infatti E. racconta di averlo sempre saputo (glielo aveva detto addirittura il pastore che lo aveva salvato). E. quindi non chiede ad Apollo (Delfi) ciò che già sa. Ma vuole “stanare il dio dal suo nascondiglio”. Che cosa vuol dire E.? lo vedremo tra breve.
L’oracolo (ucciderai tuo padre e sposerai tua madre) fu atroce, confessa E., che però non esita a farne uso per indagare la realtà, applicando ad esso la logia deduttiva: quando gli capiterà di uccidere qualcuno saprà che quello è suo padre. Perciò quando incontra L., che non conosce, e lo uccide, comprende che quello è suo padre. E. usa la logica, ma… 8anche in questo caso la logica si manifesta difettosa e comunque condizionata da altre passioni). Ma Laio non è il solo che E. uccide quel giorno, perché in realtà ammazza (prima ancora di finire L.) l’ufficiale di guardia che accompagna Laio. Di costui non ricorda neppure il nome. Eppure, secondo la sua stessa logica, avrebbe potuto essere lui e non il vecchio, suo padre. Errore inconscio? Rimozione (non sa neppure più come si chiamava la sua altra vittima!) insomma, anche in questa versione, mi pare, E. resta saldamente sul lettino dello psicanalista!
Tanto più che E. confessa anche che alla base del suo agire c’è l’odio verso i propri genitori, che avevano cercato di gettarlo in pasto alle fiere. Dopo aver ucciso L. decide di diventare re di Tebe per vendicarsi anche di sua madre Giocasta. Attraverso ciò, però, E. vuole più di ogni altra cosa vendicarsi degli dei che sono i veri responsabili di tutto: “ gli dei avevano decretato quella mostruosità e dunque quella mostruosità doveva compiersi. “ E. crede negli dei ( e in particolare in Apollo). Infatti è devoto alla loro volontà , anche quando questa mostra il suo volto feroce e disumano. È per questo che è andato a stanare Apollo. A differenza di M. e L., non ha un proprio progetto, ma vuole solo assecondare con furia il destino che gli è toccato, vuole bere fino in fondo il calice del dolore a cui non c’è scampo. Uomo del destino, E. è privo di una propria volontà, o meglio, la sua volontà è inflessibilmente quella di realizzare il suo destino. Anzi, senza questo volere che lo trascende e dà l’orientamento alla sua vita, non trova pace (appunto va a stanare Apollo). La sua gloria è questo cupio dissolvi (la morte dei suoi genitori e la sua disgrazia grazie ai quali egli si vendica della vita e di chi ha la colpa di avergli trasmesso questa malattia, l’untore che gli ha attaccato la peste che è la vita stessa: “gli dei mi avevano fatto dono del privilegio più grande che mente umana possa concepire, la sublime libertà di odiare quelli che ci hanno messo al mondo, i genitori, e poi gli antenati che a loro volta hanno generato i genitori, e ancora più su, gli dei che hanno generato gli antenati e i genitori, e se cieco e mendico, vado errando ramingo per la Grecia, non è certo per magnificare la potenza degli dei, bensì per dileggiarla.”
Dunque l’unica libertà dalla catena inesorabile del dolore che è la vita, consiste nello smascherarne il volto crudele, assecondando la sua terribile necessità. E. dunque odia la vita e sa che non può scampare ad essa: perciò sguazza nel suo fango per dileggiarne ogni versione consolatoria e pia. Il suo volto assume i tratti patibolari del condannato a morte che insulta e provoca il suo boia in modo da rendere più crudeli e suoi tormenti e più osceno lo spettacolo della sua morte.
MA (e è un ma di non poco conto) 1) E. sa che l’oracolo della P. è stato solo un gioco e non la volontà di Febo; come dobbiamo interpretare questa situazione? Forse per E. non fa differenza perché non c’è nessun atto veramente libero, ma tutto ciò che accade è inscritto in una catena inesorabile che comprende anche ciò che soggettivamente vorrebbe essere puro arbitrio? Oppure E. sa ciò che la stessa Pizia ignora, e cioè che in realtà la sua bocca ha veramente pronunciato l’oracolo del dio? 2)inconsciamente (?) E. sbaglia il proprio bersaglio (secondo la versione di Giocasta e di Sfinge che vedremo tra un attimo) non è Laio suo padre e non è neppure Giocasta sua madre. Eppure, anche con questo errore soggettivo il suo destino si compie lo stesso. E se il suo odio e la sua vendetta si rivolgono verso oggetti immaginari (trafigge con gusto Laio e gode con astio nell’accoppiarsi con la madre Giocasta, “le piantai quattro figli nella pancia… e ogni volta che montavo mia madre il mio odio (per gli dei) diventava più grande”, nondimeno egli compie davvero quelle azioni con i suoi veri genitori.
Edipo dunque continua a soffrire del complesso edipico: il suo rapporto con i genitori (siano essi L. e G. o l’ufficiale di guardia e la Sfinge) e con gli dei (immagine potenziata dei genitori) continua ad essere ambivalente: essi lo attraggono con la forza della loro potenza inderogabile che bisogna adempiere nella sua feroce crudeltà (tipica posizione sadomasochista nei confronti del potere come fonte allo stesso tempo di forza che punisce e protegge, come ha sostenuto Fromm di Fuga dalla libertà) e odio per la loro insensibilità (Laio e g. lo hanno abbandonato, così come lo aveva Febo ad una esistenza di dolore insensato).
In questa fase la P. appare sempre più come un testimone impotente, una povera donna sola e sbalestrata, risentita e idealista. Se fosse vissuta in un’altra epoca sarebbe stata una perfetta strega da mandare al rogo!
E) compare l’ombra di Giocasta. Anche lei sa tutto (ancora prima delle nozze con E. ha intuito che quello era suo figlio). Dice che E. era ingenuo perché pensava di essersi sottratto al decreto degli dei (quindi in realtà ingenua è Giocasta, perché E. l’ha ingannata). Però non gli ha detto di sapere chi fosse, né che L. fosse suo padre ) e come poteva, visto che era un omosessuale ? – ennesima versione riguardo a L. – . poi sapremo che addirittura era stato evirato (forse!) Giocasta dice che il vero padre di E. è Mnesippo (dopo Laio, Polito, l’ufficiale di guardia, il quarto padre per il povero E.!). anche Mnesippo è stato ucciso da E. (manco a dirlo) perché questi voleva impedirgli di entrare nel letto di Giocasta – parricidio plasticamente edipico!)
Giocasta è entusiasta, sprizza di piacere per l’unione con E. Ama il figlio ed è convinta che il figlio la riami (povera donna! E. la odia). È anche felice di essere stata impiccata – svela che non è vera la versione del suo suicidio – perché in questo modo ha adempiuto al decreto divino. A questo punto Pizia va su tutte le furie e insulta G.: “carogna! Sai benissimo che quell’oracolo è tutto un imbroglio inventato da me di sana pianta”. Non può sopportare che l’inganno continui, che sfacciatamente si continui ad usare il suo miserabile gioco per giustificare le menzogne più spudorate.

F) a questo punto entra in scena Tiresia. Anche lui sta morendo e vuole compiere il passaggio all’Ade con la P. Lei si accorge che lui non è affatto cieco Tiresia dice che l’unica cosa che rende sopportabile il presente è l’ignoranza del futuro, e invece gli uomini non fanno che cercare di sapere. Qui c’è un totale rovesciamento del rapporto del greco con la conoscenza. Come scrive Giorgio Colli ne La nascita della filosofia, “Delfi fu un’immagine unificante, un’abbreviazione della Grecia stessa” perché sta ad indicare che “la conoscenza fu, per i greci, il massimo valore della vita. Altri popoli conobbero, esaltarono il valore della divinazione, ma nessun popolo (come i greci) la innalzò a simbolo decisivo” (p. 16). Qui invece T. considera la conoscenza un male assurdo poi conferma il racconto di Meneceo. Ma con una variante: Tiresia ha effettivamente confezionato l’oracolo per Laio (quello che lo avvertiva di un figlio parricida, che peraltro Laio non avrebbe mai potuto avere) perché voleva mettere in disgrazia Creonte e impedire la sua successione al trono. Cioè l’esatto contrario di ciò che voleva il povero Meneceo. Perché? Perché T. è un democratico razionalista (un illuminista, potremmo dire) consapevole della decadenza della tradizione, vuole scongiurare la dittatura di Creonte: “che Creonte sia fedele te lo concedo, (…) ma tu non scordare che non c’è dittatura senza fedeltà, la fedeltà è la solida roccia sulla quale si erige lo stato totalitario”.
Con l’oracolo T. vuole indurre L. ad adottare Anfitrione (un generale capace e amabile). Come king maker T. è una frana, perché Laio si comporta in tutt’altro modo. A questo punto T. racconta alla P. la vera storia della Sfinge: una donna bellissima figlia di Laio (proprio lui!) e Ippodamia. Costei era moglie di Pelope, il quale per vendicarsi di Laio lo evira! E Ippodamia consacra la figlia a Hermes. Perché però Sfinge tenesse il padre e la città sotto la sua minaccia Tiresia non lo sa.
A questo punto P. e T. incominciano a riflettere: la storia della Sfinge è irrilevante sostiene P. ma T. replica “non esistono storie irrilevanti. Tutto è connesso con tutto dovunque si cambi qualcosa il cambiamento riguarda il tutto”. La realtà è quindi un caleidoscopio in cui ogni azione influenza tutto il resto e non vi è nulla di casuale. Tiresia spiega anche il perché del secondo oracolo: se Creonte avesse saputo che E. aveva ucciso il padre e sposato la madre divenendo re di Tebe, avrebbe cacciato E. dal trono e avrebbe instaurato un regime totalitario sul modello spartano (da cui si evince che per T la libertà è garantita solo da un certo grado di vizio, perché la perfezione (quella di Creonte) genera oppressione e dittatura. Oggi le cose forse stanno diversamente e un regime autoritario si può concepire meglio all’ombra della complicità nel vizio e nella mediocrità. O no? Fatto sta che anche questa volta T. fallisce, perché, a suo dire, G. gli aveva nascosto che fosse stato proprio E. a uccidere Laio.
L’amara conclusione di Tiresia: “ora Creonte sta edificando il suo stato totalitario. Quello che volevo evitare è accaduto”. Ecco un altro che per evitare un evento temuto gli finisce in bocca e collabora alla sua realizzazione. D’altra parte – e fa specie che T. che aveva iniziato maledicendo la conoscenza e dichiarato che la realtà è soggetta ad una variazione infinita di rapporti che ne modifica continuamente il divenire non ne abbia tenuto conto - la realtà è così complessa, è un’equazione con infinite incognite, che è illusorio poterla padroneggiare e dirigere a nostro piacimento. Ognuno sa solo qualcosa , e ogni sua azione – per definizione cieca, almeno in parte – cambia il quadro, che non può essere mai ricomposto, nemmeno (o forse soprattutto) a posteriori. In questo senso T. ci riappare molto più greco di quello che lui stesso voleva sembrare inizialmente, quando denigrava la conoscenza, poiché anche lui mostra la stessa fiducia forsennata nella capacità dell’agire umano di costruire un diverso destino. Che caratterizzò i greci, a dispetto del concetto potentissimo che ebbero del destino.

G) compare a questo punto Sfinge, o meglio, compaiono le leonesse che la sbranano e la rigettano (le sue membra si ricompongono con il peplo trasparente che ne copre e scopre il corpo bellissimo). Il supplizio è destinato a riprodursi in eterno e in ciò la sfinge di Durrenmatt ricorda la novella di Nastagio degli Onesti di Boccaccio)
La Sf. rivela che Laio non era ciò che sembrava e che T. credeva: era anche lui un tiranno perfido e superstizioso” ma la sua tirannia era sopportabile perché non si ispirava a ideali di giustizia. (p.53) Laio era un despota felice di esserlo, ma non accettava che essendo evirato con lui finisse la stirpe di Cadmo. Un giorno fece violentare la Sfinge dal suo ufficiale di Guardia (si chiamava Polifonie e così sappiamo il nome dell’ennesimo padre di Edipo) Nello stesso periodo G. partorì il figlio avuto dall’altro soldato, Mnesippo. Ovviamente Sf. ignorava lo stupido oracolo che T. aveva formulato. Laio perciò pensa di liberarsi di entrambi i bambini. Un giorno Sf. si vede arrivare un pastore che gli porta il figlio di G. e Mnesippo con i calcagni forati (potremmo chiamarlo Edipo 1) con l’ordine di Laio di farlo sbranare dalle leonesse insieme al figlio di Sf. e Polifonte. Ma Giocasta aveva corrotto il pastore perché consegnasse il suo bambino a Polibo, badando a non rivelargli la sua origine. Con uno stratagemma Sf. riesce a carpire questo segreto al pastore e quindi getta Edipo 1 alle belve, poi trafigge i calcagni a suo figlio e lo consegna al pastore. Così il figlio di Sf. e Polifonie diventa Edipo (2). Laio sospetta ma non può estorcere la confessione a Sfinge perché le leonesse la difendono. Quando Edipo 2 incontra Laio uccide in realtà suo padre (l’ufficiale di guardia Polifonte) e suo nonno (Laio). Delitto edipico elevato alla potenza si potrebbe dire. Poi, arrivato a Tebe, scioglie l’enigma della Sfinge, ma anziché ucciderla ne diventa l’amante, realizzando così l’oracolo della povera P., che con il suo scherzo non ha scampo in nessuna delle contraddittorie versioni. In ognuna di esse si realizza ciò che lei aveva profetato per dispetto.
Qui si conclude la teoria delle apparizioni. E prima di concludere leggendo il discorso con il quale T. chiude il racconto riproponendo il carattere enigmatico del mondo e l’ambiguità degli sforzi umani di interpretarlo, vorrei però avanzare un’ipotesi che forse è ignota alo stesso Durrenmatt. La mia ipotesi è che vi sia un ultimo personaggio che non è mai apparso in primo piano, ma che secondo la sensibilità greca – in questo senso quindi non di Durrenmatt – è il vero artefice di tutto: costui è Apollo il luminoso. Noi siamo partiti dalla affermazione, l’unica mai messa in discussione, che P. abbia profetato per capriccio. Ma siamo sicuri che sia così? Nella tradizionale rappresentazione della profetazione delfica e nella natura di Apollo vi sono alcuni indizi che potrebbero metterci su un'altra strada. Eraclito, infatti, dice di Febo: la Sibilla con bocca folle dice attraverso il dio cose senza riso, né ornamento, né unguento.” E la follia (la Mania di cui parla Platone nel Fedro) la condizione che rende possibile la profetazione oracolare. E chi ci dice che la pazzerella P. non fosse posseduta dal dio proprio quando, presa da quel malumore, le saltò quel ghiribizzo? In un altro passo del Timeo Platone scrive infatti: vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.” E non è un caso, forse, che solo nell’agonia della morte, quando la malattia della vita raggiunge il suo culmine, che la P. può avere una visione completa della assurdità del reale. Perché Apollo avrebbe però nascosto la sua azione e anziché agire direttamente avrebbe diretto da lontano, sfruttando i vizi e le presunzioni umane? Ciò si spiega con la natura di Febo, che viene spesso definito “colui che agisce da lontano. “L’attributo del dio, l’arco arma asiatica, allude ad un’azione indiretta, mediata, differita. Qui si tocca l’aspetto della crudeltà (…) la distruzione, la violenza differita è tipica di Apollo. Non a caso l’etimologia stessa dl su nome ha questo senso derivando dal verbo apollumi (απολλύμι), che vuol dire appunto distruggo. Apollo può essere inteso come distruttore, sterminatore, colui che distrugge totalmente. E infatti potremmo dire , il racconto si chiude con queste parole: “la Pizia non rispose, tutt’a un tratto non c’era più e anche Tiresia era scomparso e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si era inabissata.” Uno spettacolo di distruzione totale,dunque, degno di Apollo il distruttore.
In un passo di Pindaro le parole profetiche di Apollo sono paragonate alle frecce del suo arco che si rivolgono contro il mondo umano “attraverso il tessuto delle parole e dei pensieri”. (Colli) Apollo è un dio ambiguo come il suo simbolo, il cui nome in greco ha lo stesso suono del nome vita. Bìos e bìòs sono nello stesso momento la vita e la morte, la vita e l’arco che dà la morte. In questo senso Apollo non è che la metafora della duplice natura del vivente che è una forza ebbra che genera distruggendo e generando distrugge. Il frammento arcinoto di Anassimandro ce lo conferma: “ da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità” ecco allora ciò che il dio ci dice è che la vita è questo labirinto in cui siamo gettati, come dice Platone nell’Eutidemo. Il questo caos, l’uomo cerca faticosamente di trovare il filo del senso, di costruire delle isole d’ordine nel mare dell’entropia dilagante. In questo sforzo di dare un senso all’enigma, di portare ordine nel caos, razionalità dove regna solo il caso, l’uomo sarà sempre sconfitto. Anzi i suoi stessi sforzi saranno il piedistallo su cui si solleverà l’astuzia della vita e del destino, come potremmo dire parafrasando Hegel. Ma questa è anche la loro unica possibilità e dignità, come ciechi orientarsi nel buio con il loro umanissimo métron. Anche questo, infatti, dice Apollo quando mostra il suo lato benevolo, quando cioè non parla con parole indistinte, “bensì con precetti come ‘ nulla di troppo ’ oppure ‘conosci te stesso ’. Il dio accenna all’uomo che la sfera divina è sconfinata, insondabile, capricciosa, folle priva di necessità, tracotante, ma la manifestazione di essa nella sfera umana suona come un’imperiosa norma di moderazione, di controllo di limite, di ragionevolezza, di necessità.”

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