discorso Chigiano 6 luglio 2008
Il ricordo delle vittime delle stragi nazifasciste che ebbero questi luoghi come scenari nella primavera del 1944 coincide quest’anno con il 60^ della Costituzione repubblicana.
Questa circostanza, però, più che celebrazioni deve sollecitare riflessioni: il nostro è un tempo di bilanci e esami di coscienza. Gli autorevoli gridi d’allarme che da più parti vengono lanciati sullo stato della nostra vita democratica richiedono una severa riflessione che – alla luce dei caratteri che i costituenti vollero dare alle istituzioni italiane nate dalla lotta di liberazione – metta a fuoco la condizione reale della nostra vita civile e la qualità effettiva della pratica democratica nel nostro paese.
Ciò che allarma molti è, mi pare , il rischio di un distacco definitivo tra i cittadini e l’esercizio attivo delle libertà politiche e il conseguente svuotamento della pratica democratica ridotta a mera procedura. In alternativa o meglio in affinamento a questo fenomeno di inaridimento democratico si percepisce il rischio di una deriva plebiscitaria e populistica. La sclerosi della vita politica, infatti, finirebbe per configurare un assetto sociale e culturale caratterizzato da passività , perdita di autonomia e responsabilità civile, cioè precisamente il venir meno delle precondizioni che rendono possibile la democrazia intesa come il potere da parte del popolo di prendere decisioni collettive mediante la somma di libere scelte individuali di tutti i cittadini.
Prima di procedere in questo ragionamento, permettetemi però di dedicare un ricordo a Emilio Ferretti, il comandante “Ferro”. Lo scorso anno lui era qui per partecipare a questa stessa celebrazione: fu il suo ultimo impegno pubblico perché nei giorni immediatamente successivi fu colpito dal male che lo ha portato alla morte. Il 21 luglio è stata organizzata una cerimonia ad Ancona nel primo anniversario della morte. Ma credo sia giusto, e hanno fatto bene i Presidenti Pantanetti e Re a cogliere questa occasione, ricordarlo anche oggi.
Chi era Ferro? Nasce nel 1923 in una famiglia antifascista – il padre è un macchinista licenziato per motivi politici dal regime – . Operaio del cantiere navale di Ancona aderisce al Pci clandestino ed è imprigionato in seguito ad una manifestazione per la scarcerazione degli antifascisti dopo il 25 luglio ’43. dopo l’8 settembre entra nella resistenza, organizzando e dirigendo i GAP del capoluogo prima e successivamente organizzando un gruppo partigiano in montagna (il gruppo “Ferro”) che opera tra Cingoli e il Mote San Vicino. Dopo la liberazione prosegue il suo impegno militare (dovrebbe essere paracadutato oltre le linee nemiche nella zona di Bolzano, ma la guerra ha termine alla vigilia di quella missione) Tornato ad Ancona svolge numerosi incarichi politici, nell’Anpi, di cui diviene segretario provinciale, nel Pci e nella Cgil. In seguito assumerà vari incarichi nella federmezzadri e poi nell’amministrazione provinciale di Ancona di cui diviene assessore nella Giunta Borioni. Successivamente ha ricoperto la carica di Presidente regionale dell’Anpi.
Nella sua biografia, come in quella di tanti altri partigiani, si percepisce una continuità di orientamento tra la partecipazione alla Resistenza e il successivo impegno politico e civile. Nelle occasioni in cui ho avuto modo di lavorare al suo fianco sono sempre stato colpito sia dalla determinazione sia dalla elegante compostezza con la quale affrontava ogni situazione. In quella serena determinazione vi era, certo, la sicurezza di chi ha affrontato ben altre prove, ma anche, credo, la consapevolezza della natura dell’impegno per lo sviluppo democratico che non permette intemperanze, ma semmai richiede la perseveranza del lavoro di lunga lena, dell’impegno che si rinnova quotidianamente anche nei compiti apparentemente più quotidiani e umili, perché la libertà e la democrazia si riconquistano ogni giorno nella loro pratica concreta.
Insomma, nella partecipazione alla lotta partigiana, ma, paradossalmente vorrei dire ancora di più nell’impegno politico e civile repubblicano, ferretti ha impersonato quello sforzo collettivo per rendere effettiva la partecipazione popolare alla vita delle istituzioni, condizione non eludibile per un autentico sviluppo democratico. Se è vero infatti – come scrisse Calamandrei – che la libertà ha una fragranza e un fascino che finisce per conquistare anche coloro che l’hanno combattuta, nondimeno la democrazia è un assetto istituzionale estremamente fragile, per nulla destinato a svilupparsi in modo inesorabilmente lineare e necessariamente accrescitivo.
Sbaglieremmo dunque a sottovalutare i rischi che si manifestano nel nostro presente.
Infatti, le istituzioni non vivono in una sorta di vuoto pneumatico, indifferenti e invulnerabili alla evoluzione delle condizioni storiche e degli assetti sociali, economici e culturali.
I costituenti avevano ben presente il nesso tra democrazia e assetti sociali, come dimostra la formulazione dell’articolo 3 della Carta Costitutzionale, dove nel prim comma si afferma la pari dignità e uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, mentre nel secondo comma si affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza e impediscono l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
La Costituzione, dunque, non solo considera come un dato di fatto l’esistenza di differenze di carattere sociale ed economico, ma ritiene anche che tali differenze possano incidere sulle condizioni democratiche, trasformandosi in ostacoli per la libertà e l’uguaglianza consacrata nel primo comma.Intervenendo nel dibattito in aula, Lelio Basso e Amintore Fanfani, pure da posizioni politiche così diverse, esplicitarono ulteriormente questo principio. Fanfani, in particolare, dichiarò che se la rivoluzione francese dell’89 aveva affermato l’uguaglianza giuridica dei cittadini di uno stesso Stato, l’esperienza della vita sociale dell’ultimo secolo aveva dimostrato che questa semplice dichiarazione non è sufficiente a realizzare questo programma.
Potremmo dire che attraverso l’articolo 3 della nostra Costituzione rivive in tutta la ricchezza delle sue implicazioni il concetto di isonomia che era alla base della vita delle poleis greche, il quale non vuol dire solo, come siamo abituati a pensare, uguaglianza di fronte alla legge, ma anche uguaglianza attraverso la legge. Senza un certo grado di uguaglianza tra i cittadini, infatti, non garantita neppure la libertà: per questo lo Stato, attraverso la legge; ha questo compito. Lo stesso pensiero liberale classico, finirebbe per contraddirsi senza un certo livello di uguaglianza che renda effettiva la libertà. Se è vero infatti che la libertà è prima di tutto libertà di scelta degli scopi individuali, essa implica la possibilità di disporre dei mezzi necessari alla realizzazione di quei fini, pena la restrizione di tutte le libertà. E allora la diseguale distribuzione dei mezzi, che fosse così che alcuni ne fossero privi, renderebbe vuota la libertà. Perciò la politica dei diritti sociali che dia pari opportunità al figlio dell'operaio e a quello del professionista, non è incoerente con il principio liberale, ma è da esso richiesto. Anche per questo è così importante garantire la giustizia sociale, combattere la precarietà, l'emarginazione, promuovere l'inclusione sociale.
Che l’uguaglianza e la libertà siano condizioni per una vera vita democratica lo dicono anche i padri della più antica democrazia esistente, quella americana. In particolare la tradizione jeffersoniana persegue l’ideale di una comunità costituita da individui responsabili, consapevoli e perciò capaci di autogovernarsi perché a) economicamente non subalterni; b) socialmente emancipati e consapevoli di sé; c)intellettualmente colti e attivamente partecipi al dibattito pubblico. Non a caso, contrapponendo la situazione americana (o forse la sua idealizzazione) alla condizione delle classi lavoratrici in europa, gli esponenti democratici erano soliti deprecarne non tanto la povertà, quanto l’esclusione “dalla vita civica, dal mondo della cultura, da tutto quanto stimola la curiosità intellettualee amplifica gli orizzonti spirituali (…) viste dall’America, le classi lavoratrici in Europa non vivevano nella miseria, ma in una virtuale schiavitù.” (C. Lasch, La ribellione delle élite) non a caso Henry Adams fa dire ad uno dei personaggi del suo romanzo: “Democrazia significa che le masse sono innalzate a un livello di intelligenza superiore a prima. Tutta la nostra civiltà mira a questo fine.”(cit. da C. Lasch)
Come non vedere nei principi costituzionali e nell’intesa vita democratica dei primi decenni repubblicani lo sforzo di tradurre questo stesso progetto democratico nella concreta realtà dell’Italia uscita dalla guerra e dalla dittatura fascista (e quindi segnata dai noti ritardi e dalla arretratezza della sua storia nazionale, con tutto il fardello rappresentato dalla ristrettezza classista del nuovo stato e dalla conseguente estraneità delle masse contadine e cattoliche, dalle insufficienze civili e dalle tendenze sovversivistiche delle sue classi borghesi, nonché da ultimo dal peso della dittatura fascista e del suo esperimento di inserimento passivizzante e reazionario delle masse nella struttura dello stato totalitario). Lo sforzo che le organizzazioni politiche e sindacali di massa compirono per emancipare le classi lavoratrici dalla sottomissione (abbiamo insegnato al cafone a non togliersi il cappello di fronte al padrone, come diceva di Vittorio) e dallo sterile ribellismo per conquistare la consapevolezza dei propri diritti e la maturità di una prassi democratica che vede nel conflitto sociale un fattore di integrazione civile, rafforzò la democrazia e permise al paese uno straordinario sviluppo civile e sociale.
Qual è la situazione oggi? Molte cose sono cambiate, soprattutto nella coscienza collettiva e nella prassi sociale. La crisi e il collasso del sistema partitico ha travolto molte speranze e molte conquiste. Ma non tutto può essere spiegato con la manchevolezze soggettive del caso italiano, anche perché fenomeni analoghi si possono osservare in molti altri paesi. Sarebbe sconsiderato, ad esempio, ignorare la poderosa ridefinizione dei rapporti di forza tra poteri e saperi verificatasi negli ultimi decenni e l’influenza che tutto ciò ha avuto sul potere politico e sul sovrano che formalmente lo detiene: il popolo.
Prendiamo in considerazione ad esempio la sfera economica: “quando il denaro parla tutti sono costretti ad ascoltare, scrive un sociologo americano. Un solo dato per misurare le dimensioni del problema:delle 100 più grandi entità economiche del mondo 51 sono corporations e 49 stati nazionali: la General Motors, per esempio, con un fatturato di 176 miliardi di dollari precede 27 stati nazionali. In proposito un saggio apparso su The economist ha osservato che le imprese 2° causa del loro comando sulle risorse hanno un be maggior peso politico dei singoli cittadini (e) l’uguaglianza politica è messa in discussione da un eccesso di ricchezza in seguito al quale più denaro comporta più potere politico”. Può sorprendere che in questa situazione si verifichi una scalata al governo politico da parte del mondo degli affari, e conseguentemente il cittadino si senta impotente e quindi indotto a disertare un campo nel quale si sente ininfluente.
Penso di non, tanto più che i questi anni abbiamo assistito ad un progressivo discredito gettato sul valore e l’efficacia dell’agire collettivo. I mezzi di comunicazione di massa, basti leggere cosa scrive a questo proposito ad esempio un osservatore acuto come Z. Bauman, ci propongono sempre un approccio individuale alla soluzione dei problemisocio-economici; con l’effetto di colpevolizzare e rendere passivi sul piano politico tutti coloro che non riescono a trovare la loro soluzione come hanno fatto invece i loro modelli massmediatici. Cito un solo dato per dare la misura di questo processo: dopo la seconda guerra mondiale nei paesi capitalistici vi era un iscritto al sindacato ogni tre lavoratori,ora ce n’è uno ogni 11. a ciò si aggiunga lo scadimento del discorso pubblico: una democrazia vive se c’è un intenso scambio di opinioni, ma affinché ciò si verifichi , è necessario innanzitutto che le parole vengano usate con onestà, ma anche che non ci sia un divario eccessivo nel loro possesso: poche parole, poche idee. infatti, "è solo la lingua che fa eguali - scrive don Milani - eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui" ecco perché una scuola egualitaria è condizione di democrazia. Altrimenti il dibattito viene sostituito dal formarsi di due poli: la classe dei parlanti e quella dei plaudenti, e , soprattutto, invece di essere un vero dibattito, ciò uno scambio che ci permette di condividere idee ed esperienze sollevandoci dal mero livello delle opinioni cioè di punti di vista sorti da impressioni casuali e parziali, diventa un soliloquio in cui ognuno è soddisfatto di esibire la propria doxa, (quanto più essa è condivisa dai più: non viviamo forse nell’epoca dei sondaggi?) disperando che si possa costruire una verità condivisa. In questo senso è forte la tentazione di fare delle parole solo strumenti di pubblicità e propaganda.
Anche da questo insieme di fenomeni , temo, venga una forte spinta all’usura delle parole del loro valore di strumenti d comprensione e di comunicazione e del discorso pubblico in particolare, scoraggiando e allontanando anche così dalla partecipazione.
Mi fermo qui nell’elencare questo insieme di fenomeni, ma si potrebbe continuare a lungo ad esempio considerando l’effetto negativo che ha il progressivo svuotamento delle assemblee elettive come luoghi nei quali si manifesta in modo plastico la rappresentanza tra la volontà del sovrano democratico e la decisione politica.
Nel loro insieme tutti questi fenomeni non fanno che contribuire a indebolire il rapporto tra il popolo e lo Stato. E quindi a allargare lo spazio per il populismo, che a mio modo di vedere consiste essenzialmente nella contrapposizione organica tra popolo e élite, tra popolo e istituzioni. In questo senso il populismo potrebbe essere indifferente rispetto alla distinzione tra destra e sinistra, perché la sua vera natura è quella di suscitare nel popolo un complesso di inferiorità e perciò di rivalsa nei confronti di tutti quei poteri che in qualche modo pretendono di limitare e disciplinare le pulsioni popolari. Ecco perché il populismo ha sempre bisogno di un capro espiatorio da indicare come il nemico e il responsabile da combattere: esso può essere di volta in volta l’intellettuale, il burocrate, il magistrato, il politico, naturalmente. Ecc. il populismo è una contraffazione del principio democratico, che tende invece a far diventare il popolo stato, non a contrapporre l’uno all’altro in modo organico. In questo senso il populismo sfrutta il deficit di democrazia di un ordinamento e lo esaspera accrescendo in questo modo la sua influenza come dimostra plasticamente la crisi delle istituzioni europee che sono sorte programmaticamente quasi con l’obiettivo di fare a meno del popolo, e per questo sono più esposte di altre alla critica populistica di essere funzionali solo ad una élite (gli euroburocrati, appunto).
Purtroppo il populismo, e questa considerazione la dobbiamo nientemeno alla analisi di Tocqueville, tende per sua natura a travolgere i limiti dello stato di diritto, a negare il fondamento stesso di quella divisione dei poteri che consente di temperare le spinte che possono provenire in alcuni momenti dal sovrano democratico. Come è nell’assetto repubblicano nato dalla resistenza, nel quale la democrazia è associata alla costituzione cioè ad un insieme di regole e procedure che delimitano in modo inderogabile la decisone politica.
I fenomeni di crisi di molti paesi europei di fronte alle sfide della globalizzazione e in particolare al saliente storico di una società multiculturale e multietnica, dipendono in larga misura da queste tendenze. Il discorso è particolarmente appropriato per il nostro paese, purtroppo.
La soluzione di questi problemi non è certo facile né a portata di mano, ma è anche chiara nel suo contenuto: la democrazia potrà vincere la sua sfida soltanto se si riorganizzerà e riprenderà la strada della promozione della partecipazione attiva e consapevole del popolo alla vita pubblica.
Se non riusciremo in questo intento, purtroppo, temo varrà per noi il modello rappresentato da Aristofane nella commedia “I cavalieri”, dove si vede il salcicciaio Agoracrito che viene convinto a candidarsi alla guida della città proprio in ragione di quelli che noi chiameremmo vizi (ignoranza, volgarità, sfrontatezza): il consiglio che gli viene dato è infatti di continuare a fare quello che fa di solito:” rimescola e insacca insieme le cose pubbliche d’ogni genere, e accattivati sempre il popolo,blandiscilo con parole ben cucinate . Tutto il resto del demagogo ce l’hai. Voce oscena oscure origini, volgarità. Possiedi tutto quello che ci vuole per governare.”
Potremmo dire che Agoracrito l’esatto opposto di quell’ideale di responsabilità ed eccellenza che spinsero tanti giovani a prendere la strada dei ribelli per la libertà.
Non sembri una fuga nella sfera astratta della morale, ma io credo che di fronte a queste sfide sia prima di ogni altra cosa indispensabile recuperare quella carica etica con tutto il valore che essa ha per la formazione di individui socialmente responsabili, cioè individui - come scrive Bruno Bettelheim - che hanno il senso della propria identità, la convinzione di essere persone uniche, capaci di rapporti durevoli e profondamente significativi con altre persone e quindi responsabili delle proprie decisioni e in grado di assumerle. Al polo opposto si trova la massa informe che è alla base dei regimi totalitari del secolo scorso, dominati da capipopolo a loro volta bisognosi di uomini-massa. La democrazia, infatti,, proclama l'uguaglianza ma non tende all'omologazione, alla medietà conformistica, bensì promuove l'autonomia e l’ originalità.
Per ciascuno di noi mi auguro valgano come viatico le parole con le quali Max Weber conclude il suo discorso sulla Scienza come professione: “anelare e attendere non basta, ci comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al compito quotidiano, nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile quando ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene i fili della sua vita.”
Lettori fissi
martedì 3 novembre 2009
Orazione 25 aprile 2006 Camerino
1. mi pare di poter dire che da alcuni anni la celebrazione del 25 aprile ha perso (se mai l'ha avuto) quel carattere di stanca ritualità che alcuni critici non sempre disinteressati le rimproveravano. anche questo 25 aprile, insomma, è vissuto con uno spirito di forte partecipazione, con una tensione morale che testimonia la consapevolezza dell'attualità di questa data e della vitalità per il nostro presente degli ideali e dei sacrifici che animarono la lotta di liberazione dai nazifascisti.
da più parti viene invocata l'esigenza di salvagurdare e tramandare alle giovani generazioni la memoria di quella lotta e di quei sacrifici. è una giusta preoccupazione; tanto più, infatti, che il ricordo di quelle vicende è sottoposto da alcuni anni al tentativo di confonderne e falsificarne il valore. io però penso che se vogliamo che quegli ideali restino vitali (cioè capaci di generare nel presente) è necessario che i giovani (soprattutto), e il popolo italiano nel suo insieme se ne riapproprino in modo attivo; non li considerino cioè solo come una realtà del passato, ma li reinventino e li traducano nell'azione rivolta ad affrontare i grandi problemi del nostro presente. è questo, io credo, l'obiettivo cui ha teso il Presidente della repubblica Ciampi in tutto il suo mandato, e di ciò credo tutti dobbiamo rendergli grazie.
l'attualità della Resistenza, d'altra parte, è testimoniata dal fatto che proprio nei momenti di svolta più significativi e drammatici della nostra storia republicana, il popolo italiano e le giovani generazioni abbiano sentito il bisogno di tornare ad incontrare la resistenza (penso al 1960 e al 1968), per ristrovare la sorgente nella quale ridefinire se stessi e i propri doveri nel presente.
è stato quindi giusto dedicare una parte del programma di queste celebrazioni ai movimenti giovanili e al loro rapporto (anche problematico) con la resistenza, poiché questa riflessione ci permette di vedere meglio come il 25 aprile e la lotta di leberazionecostituiscano un costante riferimento nei momenti critici della nostra storia contemporanea.
d'altra parte questo patrimonio morale va difeso perché, come dicevo pocanzi, in questi anni abbiamo assistito al tentativo di cancellare il significato della lotta di liberazione, di negarla, mamometterla e così falsificarla. questo tentativo ha uno scopo preciso: separare nella coscienza civile il legame tra antifascismo e istituzioni repubblicane, come premessa per arrivare alla manomissione della costituzione e dell'unità stessa del paese.
questo tentativo si fonda innanzitutto su un'insidiosa campagna propagandistica tendente a omologare i partigiani e i fascisti; a aquesto scopo si usano di solito due argomenti: a) i morti sono tutti uguali, meritano tutti pietà e non è giusto distinguere tra i caduti di una parte e i caduti della parte opposto perché tutti hanno combattuto per delle ragioni che ritenevano giuste; b) la resistenza è stato un fenomeno trascurabile (l'italia è stata liberata dagli alleati) e ha avuto le sue pagine nere.
al primo pseudo-argomento (che ha purtroppo contrubuito a produrre alcune vergognose leggi equiparatrici) bisogna rispondere che un'omologazione è inaccettabile, perchè se è vero che ovunque vi furono persone che si battevano con onestà d'intenti, è vero però anche che non si possono confondere i torti e le ragioni, mettendo sullo stesso piano coloro che erano per la dittatura, che cooperavano attivamente alla barbarie dei campi di sterminio, che si erano macchiati della vergogna delle leggi razziste con coloro che si battevano contro tutto ciò e perlacreazione di una società libera dal pregiudizio razziale, solidale e rispettosa delle minoranze.
non possiamo, in altre parole, dimenticare che se avessero vinto loro l'europa intera sarebbe diventata un immenso campo di concentramento, dominato dalla razza superiore dei signori ariani, mentre interi popoli sarebbero stati ridotti in schiavitù.
al contrario, ciò per cui si sono battuti i partigiani è una società veramente libera per tutti, compresi gli indifferenti o gli avversari della democrazia, come scrive significativamente piero calamandrei in un articolo apparso sulla rivista il ponte già nel1945. ecco ciò che rende incomparabili i due campi e che non potrà essere cancellato.
quanto al secondo argomento, penso con molta serenità si possa dire che ferma restando la gratitutdine di tutti gli italiani per il contributo decisivo degli eserciti alleati alla liberazione del paese, la Resistenza sia stata però un fatto importante sia dal punto di vista militare - come ampiamente riconosciuto dagli stessi comandi militare alleati - sia sul piano politico e morale.
se vogliamo comprendere fino in fondo il valore etico di quella esperienza dobbiamo innanzitutto riflettere sul fatto che un intero popolo e ogni individuo singolarmente furono messi improvvisamente di fronte alla necessità di scegliere da quale parte schierarsi dopo la tragedia dell'otto settembre. per capire meglio il significato di quella situazione dobbiamo considerare che di norma questa scelta non è richiesta poiché esiste un'autorità (lo stato in tutte le sue articolazioni) che determina l'indirizzo generale entro il quale l'operare individuale viene naturalmente incanalato. la drammaticità di quella scelta risultò tanto maggiore per gli che per oltre venti anni erano stati cresciuti dalla propaganda al mito del condottiero infallibile, dell'uomo della provvidenza al quale la nazione poteva affidarsi fiduciosa, al credere, obbedire, combattere.
per questo coloro che scelsero di schierarsi contro i nazisti e i fascisti lo fecero con un gesto che esaltava il riconquistato sentimento di responsabilità individuale e quindi esprimeva la libertà che nasce dalla coscienza di un dovere autonomamente determinato, liberamente scelto, e non passivamente subito. altro che morte della patria, in quel frangente il sentimento patriottico è in realtà risorto!
i giovani che 61 anni fa hanno conquistato con il loro sacrificio la libertà di cui ancora oggi godiamo, erano consapevoli di tutto questo, come dimostrano le lettere dei condannati a morte della Resistenza, dove si trova - pur di fronte alla propria imminente fine individuale - uno slancio fiducioso verso l'avvenire, verso quel domani che si sa, con la certezza che viene dall'intima convinzione di stare dalla parte giusta, è destinato a realizzarsi grazie al proprio sacrificio. come è scritto nella lettera che Achille Barilatti, partigiano maceratese del gruppo Nicolò, fucilato di fronte al cimitero di Muccia, medaglia d'oro al valore militare, scrive alla madre: "mamma adorata, quando riceverai la presente sarai straziata dal dolore. (...) non piangere mamma, il mio sangue non si verserà invano e l'Italia sarà di nuovo grande."
no, quel sangue non è stato versato invano! esso ha contribuito a dare alla patria istituzioni libere e a restituirle l'onore in campo internazionale, un onore compromesso da benti anni di dittatura, da guerre sciagurate e criminali, dalla complicità nella persecuzione razziale.
contrariamente a quello che comunemente si pensa anche nella nostra provincia la resistenza ha dato un contributo non trascurabile a questa lotta e nei 10 mesi che separano l'otto settembre '43 dalla liberazione del luglio '44, ha pagato un elevato tributo di sangue che porta i nomi di Montalto, Chigiano, Valdiola, Braccano, Morico, Apiro. la città di Camerino ha subito in particolare lutti gravissimi e gli eccidi di Morro e Capolapiaggia. quest'ultimo, se non erro, rappresenta la strage di civili più sanguinosa che sia stata perpetrata nelle Marche.
anche dal punto di vista militare il contributo delle formazioni partigiane della provincia di macerata e delle popolazioni che le sostenevano è stato significativo come riconosce lo stesso comando militare tedesco.
dunque la lotta partigiana nel suo insieme e nella nostra provincia è stato un importante fattore di riscatto civile e ha contribuito al successo militare sui nazifascisti.
ma la resistenza è stata soprattutto la fucina da cui hanno tratto vigore e legittimazione le istituzioni repubblicane e la Carta Costituzionale, da cui è scaturito il progresso civile e materiale del popolo italiano e la scelta di contribuire alla formazione dell'Europa, che rappresenta oggi il nostro orizzonte.
quest'anno ricorre il sessantesimo anniversario della repubblica, voluta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946. questa ricorrenza ci spinge ad approfondire la riflessione sul nesso tra lotta di liberazione e istituzioni repubblicane, per capire dove va la nostra comunità, quali sono i pericoli che la minacciano e quali valori dobbiamo saper rivitalizzare.
è nella resistenza alla dittatura fascista durante il ventennio prima e nella lotta di liberazione contro il nazifascismo poi che matura in tutte le formazioni antifasciste l'aspirazione a dare vita, una volta riconquistata la libertà, ad istituzioni radicalmente nuove (quindi non si trattava di effettuare una semplice restaurazione dello stato liberale prefascista), autenticamente democratiche e repubblicane. ciò significava che lo stato avrebbe dovuto innanzitutto essere liberato dall'ipoteca di una monarchia fellona, complice della dittatura fascista e delle sue disastrose guerre coloniali e d'aggressione. uno stato quindi in grado di garantire le quattro libertà fondamentali dei moderni (la libertà personale, d'opinione, di riunione e di associazione) e con esse l'esercizio effettivo della democrazia. che cosa intendevano i costituenti per democrazia? secondo una definizione classica la democrazia è il potere di prendere decisioni collettive (ciò vincolanti per tutti) esercitato dal popolo, ossia da tutti i cittadini mediante la somma di libere scelte individuali. il principio democratico comporta innanzitutto il riconoscimento della cittadinanza a tutti gli individui, senza distinzioni di genere o d'altra natura. in effetti questo è anche il sessantesimo del suffragio femminile, evento da cui ha preso le mosse il processo di liberazione ed emancipazione che ha fatto enormemente progredire il paese nel suo complesso sia sui piani civile e culturale che su quelli materiale ed economico.
ora dobbiamo domandarci: che ne è di quei principi nella concretezza della nostra vita a sessanta anni dalla loro fondazione?
secondo la deterministica e pessimistica previsione di Polibio, la democrazia tende naturalmente a degenerare nelle mani dei nipoti dei suoi fondatori: in altre parole due generazioni, 50, 60 anni circa secondo i nostri standard. secondo questa teoria la democrazia degenera nella oclocrazia (il potere manesco, una sorta di tirannia della plebe) nella quale il popolo cade ad opera di ricchi corruttori che lo ingannano e lo inorgogliscono con lusinghe.
a che punto siamo nella nostra storia civile? è reale un rischio degenerativo simile o diverso?
certo, potremmo facilmente confortarsi osservando che esistono democrazie (quella americana) da ben più di due generazioni e quindi non vi è nessuna necessità inderogabile per noi di vedere degenerare la nostra. tuttavia non possiamo trascurare che la nostra storia nazionale è più recente e fragile e il senso dello stato generalmente più debole. inoltre è innegabile un senso di frustrazione diffusa e timori ricorrenti per la tenuta democratica del paese.
insomma, a che punto siamo? cosa dobbiamo temere, cosa dobbiamo sperare?
io penso che i motivi di speranza siano nonostante tutto più forti delle paure, poiché il gusto della libertà in tutte le sue espressioni è un piacere contagioso, che una volta assaggiato conquista chiunque.
quindi se è vero che la costituzione era il programma politico della Resistenza, la repubblica democratica che ne è scaturita è diventata davvero nella quale tutti (o quasi) si riconoscono, come aveva giustamente previsto calamandrei.
tuttavia sbaglieremmo a considerare la democrazia un fenomeno autoincrementale e a non vedere i rischi che incombono. forse non si tratta di rischi di un rovesciamento in senso stretto della democrazia, ma certo di un suo svuotamento.
infatti le istituzioni non vivono in un vuoto pneumatico, ma sono sottoposte alle sollecitazioni della storia e dei suoi sconvolgimenti. e il nostro è un tempo di grandi sfide: la crescita delle disuguaglianze (non solo economiche, ma anche culturali), il terrorismo e la guerra, il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, ecc.
di fronte a questi rischi è indispensabile mantenere fermi sul piano culturale e della coscienza civica gli elementi fondanti delle istituzioni repubblicane e democratiche, a cominciare dai concetti di libertà e uguaglianza. dicevo prima che la democrazia è il potere di prendere decisioni collettive da parte del popolo mediante la somma di libere scelte individuali di tutti i cittadini. in questa definizione ricorrono due espressioni: tutti i cittadini e libere scelte, che corrispondono in effetti alle nozioni di uguaglianza e libertà. essi sono in effetti i sostantivi che indicano i valori ultimi cui si ispira la democrazia , ma sono anche le condizioni senza le quali non si dà e non si conserva la democrazia. ma noi dobbiamo domandarci: quando si è liberi? che cosa vuol dire essere uguali? che rapporto c'è tra questi due sostantivi?
per definire l'uguaglianza, ad esempio, il pensiero greco classico utilizzava la parola isonomìa, che può essere tradotto con uguaglianza di legge, che non vuol dire solo, come di solito intendiamo noi, uguaglianza di fronte alla legge, ma anche attraverso la legge, dal che si ricava che la legge deve sempre restituire e promuovere l'uguaglianza, che diventa quindi un fine dello stato.
riguardo al nesso tra questi due sostantivi così importanti, mi pare che questa idea antica di uguaglianza (uguali attraverso la legge) si colleghi al nesso che l'articolo 3 della Carta Costituzionale impone alle istituzioni di promuovere l'uguaglianza per rendere effettiva la libertà.
se è vero infatti che la libertà è prima di tutto libertà di scelta degli scopi individuali, essa implica la possibilità di disporre dei mezzi necessari alla realizzazione di quei fini, pena la restrizione di tutte le libertà, allora la diseguale distribuzione dei mezzi, tanto diseguale che alcuni ne sono privi, rende vuota la libertà. perciò la politica dei diritti sociali che dia pari opportunità al figlio dell'operaio e a quello del professionista, non è incoerente con il principio liberale, ma è da esso richiesto. anche per questo è così importante garantire la giustizia sociale, combattere la precarietà, l'emarginazione, promuovere l'inclusione sociale.
per essere veramente liberi è però anche necessario che le nostre deliberazioni siano veramente autonome. per questo è necessario che lo spazio del dibattito pubblico in cui si forma la pubblica opinione (il vero sovrano negli stati democratici)sia debitamente presidiato per garantire il suo corretto funzionamento. anche qui entra in gioco l'uguaglianza: essendo la democrazia dialogo tra punti di vista diversi per la formazione di un orientamento, è necessario innanzitutto che le parole vengano usate con onestà, ma anche che non ci sia un divario eccessivo nel loro possesso: poche parole, poche idee. infatti, "è solo la lingua che fa eguali - scrive don Milani - eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui" ecco perché una scuola egualitaria è condizione di democrazia.
ma siccome la democrazia non ha verità assolute da affermare e il suo compito è piuttosto quello di rendere confrontabili e com-patibili le diverse prospettive valoriali, allora è necessario che nel dibattito pubblico sia sempre presente lo spirito di ricerca sia l'affermazione di verità indiscutibili sia la dittatura dell'opinione che rende impossibile il vero confronto e insieme obbligatoria l'opinione della maggioranza. invece va sempre affermato che la verità è sempre in causa e non esiste una vox populi vox dei che trasformerebbe la voce della minoranza in vox diaboli. per questo il principio della laicità del diritto pubblico - mirabilmente sostenuto dal nostro Alberico gentili da San Ginesio - e dello stato non va considerato un residuo ottocentesco, ma un valore fondante delle libere istituzioni.
questo insieme di condizioni sfociano a mio modo di vedere in un elemento senza il quale nessuna democrazia può conservarsi. l'esistenza di individui socialmente responsabili, cioè individui - come scrive Bettelheim - che hanno il senso della propria identità, la convinzione di essere persone uniche, capaci di rapporti durevoli e profondamente significativi con altre persone e quindi responsabili delle proprie decisioni e in grado di assumerle. al polo opposto si trova la massa informe che è alla base dei regimi totalitari del secolo scorso, dominati da capipopolo a loro volta bisognosi di uomini-massa. la democrazia, perciò, proclamando l'uguaglianza non deve tendere all'omologazione, alla medietà conformistica, bensì promuovere l'autonomia e la diversità qualitativa.
anche per queste ragioni è così importante che una società sappia accogliere come un prezioso arricchimento chi viene da un'altra cultura e può innestare nella nostra società il lievito di una realtà diversa.
il nostro presente ci pone molte altre questioni che sfidano la vitalità delle istituzioni democratiche: la qualità dell'organizzazione della politica, la vita dei partiti, la salvaguardia della divisione dei poteri e dell'autonomia del potere giudiziario, ecc.
ma oggi l'accento va posto sull'impegno culturale e morale finalizzato alla riappropriazione consapevole dei valori fondanti della convivenza democratica, quei valori per i quali hanno dato la loro esistenza salvatore Troilo, Achille Barilatti e tutti gli altri, nella certezza che quegli ideali incarnano di una più nobile umanità.
con questo spirito guardiamo al futuro.
viva il 25 aprile
viva la repubblica
viva la Costituzione.
martedì 25 aprile 2006
1. mi pare di poter dire che da alcuni anni la celebrazione del 25 aprile ha perso (se mai l'ha avuto) quel carattere di stanca ritualità che alcuni critici non sempre disinteressati le rimproveravano. anche questo 25 aprile, insomma, è vissuto con uno spirito di forte partecipazione, con una tensione morale che testimonia la consapevolezza dell'attualità di questa data e della vitalità per il nostro presente degli ideali e dei sacrifici che animarono la lotta di liberazione dai nazifascisti.
da più parti viene invocata l'esigenza di salvagurdare e tramandare alle giovani generazioni la memoria di quella lotta e di quei sacrifici. è una giusta preoccupazione; tanto più, infatti, che il ricordo di quelle vicende è sottoposto da alcuni anni al tentativo di confonderne e falsificarne il valore. io però penso che se vogliamo che quegli ideali restino vitali (cioè capaci di generare nel presente) è necessario che i giovani (soprattutto), e il popolo italiano nel suo insieme se ne riapproprino in modo attivo; non li considerino cioè solo come una realtà del passato, ma li reinventino e li traducano nell'azione rivolta ad affrontare i grandi problemi del nostro presente. è questo, io credo, l'obiettivo cui ha teso il Presidente della repubblica Ciampi in tutto il suo mandato, e di ciò credo tutti dobbiamo rendergli grazie.
l'attualità della Resistenza, d'altra parte, è testimoniata dal fatto che proprio nei momenti di svolta più significativi e drammatici della nostra storia republicana, il popolo italiano e le giovani generazioni abbiano sentito il bisogno di tornare ad incontrare la resistenza (penso al 1960 e al 1968), per ristrovare la sorgente nella quale ridefinire se stessi e i propri doveri nel presente.
è stato quindi giusto dedicare una parte del programma di queste celebrazioni ai movimenti giovanili e al loro rapporto (anche problematico) con la resistenza, poiché questa riflessione ci permette di vedere meglio come il 25 aprile e la lotta di leberazionecostituiscano un costante riferimento nei momenti critici della nostra storia contemporanea.
d'altra parte questo patrimonio morale va difeso perché, come dicevo pocanzi, in questi anni abbiamo assistito al tentativo di cancellare il significato della lotta di liberazione, di negarla, mamometterla e così falsificarla. questo tentativo ha uno scopo preciso: separare nella coscienza civile il legame tra antifascismo e istituzioni repubblicane, come premessa per arrivare alla manomissione della costituzione e dell'unità stessa del paese.
questo tentativo si fonda innanzitutto su un'insidiosa campagna propagandistica tendente a omologare i partigiani e i fascisti; a aquesto scopo si usano di solito due argomenti: a) i morti sono tutti uguali, meritano tutti pietà e non è giusto distinguere tra i caduti di una parte e i caduti della parte opposto perché tutti hanno combattuto per delle ragioni che ritenevano giuste; b) la resistenza è stato un fenomeno trascurabile (l'italia è stata liberata dagli alleati) e ha avuto le sue pagine nere.
al primo pseudo-argomento (che ha purtroppo contrubuito a produrre alcune vergognose leggi equiparatrici) bisogna rispondere che un'omologazione è inaccettabile, perchè se è vero che ovunque vi furono persone che si battevano con onestà d'intenti, è vero però anche che non si possono confondere i torti e le ragioni, mettendo sullo stesso piano coloro che erano per la dittatura, che cooperavano attivamente alla barbarie dei campi di sterminio, che si erano macchiati della vergogna delle leggi razziste con coloro che si battevano contro tutto ciò e perlacreazione di una società libera dal pregiudizio razziale, solidale e rispettosa delle minoranze.
non possiamo, in altre parole, dimenticare che se avessero vinto loro l'europa intera sarebbe diventata un immenso campo di concentramento, dominato dalla razza superiore dei signori ariani, mentre interi popoli sarebbero stati ridotti in schiavitù.
al contrario, ciò per cui si sono battuti i partigiani è una società veramente libera per tutti, compresi gli indifferenti o gli avversari della democrazia, come scrive significativamente piero calamandrei in un articolo apparso sulla rivista il ponte già nel1945. ecco ciò che rende incomparabili i due campi e che non potrà essere cancellato.
quanto al secondo argomento, penso con molta serenità si possa dire che ferma restando la gratitutdine di tutti gli italiani per il contributo decisivo degli eserciti alleati alla liberazione del paese, la Resistenza sia stata però un fatto importante sia dal punto di vista militare - come ampiamente riconosciuto dagli stessi comandi militare alleati - sia sul piano politico e morale.
se vogliamo comprendere fino in fondo il valore etico di quella esperienza dobbiamo innanzitutto riflettere sul fatto che un intero popolo e ogni individuo singolarmente furono messi improvvisamente di fronte alla necessità di scegliere da quale parte schierarsi dopo la tragedia dell'otto settembre. per capire meglio il significato di quella situazione dobbiamo considerare che di norma questa scelta non è richiesta poiché esiste un'autorità (lo stato in tutte le sue articolazioni) che determina l'indirizzo generale entro il quale l'operare individuale viene naturalmente incanalato. la drammaticità di quella scelta risultò tanto maggiore per gli che per oltre venti anni erano stati cresciuti dalla propaganda al mito del condottiero infallibile, dell'uomo della provvidenza al quale la nazione poteva affidarsi fiduciosa, al credere, obbedire, combattere.
per questo coloro che scelsero di schierarsi contro i nazisti e i fascisti lo fecero con un gesto che esaltava il riconquistato sentimento di responsabilità individuale e quindi esprimeva la libertà che nasce dalla coscienza di un dovere autonomamente determinato, liberamente scelto, e non passivamente subito. altro che morte della patria, in quel frangente il sentimento patriottico è in realtà risorto!
i giovani che 61 anni fa hanno conquistato con il loro sacrificio la libertà di cui ancora oggi godiamo, erano consapevoli di tutto questo, come dimostrano le lettere dei condannati a morte della Resistenza, dove si trova - pur di fronte alla propria imminente fine individuale - uno slancio fiducioso verso l'avvenire, verso quel domani che si sa, con la certezza che viene dall'intima convinzione di stare dalla parte giusta, è destinato a realizzarsi grazie al proprio sacrificio. come è scritto nella lettera che Achille Barilatti, partigiano maceratese del gruppo Nicolò, fucilato di fronte al cimitero di Muccia, medaglia d'oro al valore militare, scrive alla madre: "mamma adorata, quando riceverai la presente sarai straziata dal dolore. (...) non piangere mamma, il mio sangue non si verserà invano e l'Italia sarà di nuovo grande."
no, quel sangue non è stato versato invano! esso ha contribuito a dare alla patria istituzioni libere e a restituirle l'onore in campo internazionale, un onore compromesso da benti anni di dittatura, da guerre sciagurate e criminali, dalla complicità nella persecuzione razziale.
contrariamente a quello che comunemente si pensa anche nella nostra provincia la resistenza ha dato un contributo non trascurabile a questa lotta e nei 10 mesi che separano l'otto settembre '43 dalla liberazione del luglio '44, ha pagato un elevato tributo di sangue che porta i nomi di Montalto, Chigiano, Valdiola, Braccano, Morico, Apiro. la città di Camerino ha subito in particolare lutti gravissimi e gli eccidi di Morro e Capolapiaggia. quest'ultimo, se non erro, rappresenta la strage di civili più sanguinosa che sia stata perpetrata nelle Marche.
anche dal punto di vista militare il contributo delle formazioni partigiane della provincia di macerata e delle popolazioni che le sostenevano è stato significativo come riconosce lo stesso comando militare tedesco.
dunque la lotta partigiana nel suo insieme e nella nostra provincia è stato un importante fattore di riscatto civile e ha contribuito al successo militare sui nazifascisti.
ma la resistenza è stata soprattutto la fucina da cui hanno tratto vigore e legittimazione le istituzioni repubblicane e la Carta Costituzionale, da cui è scaturito il progresso civile e materiale del popolo italiano e la scelta di contribuire alla formazione dell'Europa, che rappresenta oggi il nostro orizzonte.
quest'anno ricorre il sessantesimo anniversario della repubblica, voluta dal popolo italiano con il referendum del 2 giugno 1946. questa ricorrenza ci spinge ad approfondire la riflessione sul nesso tra lotta di liberazione e istituzioni repubblicane, per capire dove va la nostra comunità, quali sono i pericoli che la minacciano e quali valori dobbiamo saper rivitalizzare.
è nella resistenza alla dittatura fascista durante il ventennio prima e nella lotta di liberazione contro il nazifascismo poi che matura in tutte le formazioni antifasciste l'aspirazione a dare vita, una volta riconquistata la libertà, ad istituzioni radicalmente nuove (quindi non si trattava di effettuare una semplice restaurazione dello stato liberale prefascista), autenticamente democratiche e repubblicane. ciò significava che lo stato avrebbe dovuto innanzitutto essere liberato dall'ipoteca di una monarchia fellona, complice della dittatura fascista e delle sue disastrose guerre coloniali e d'aggressione. uno stato quindi in grado di garantire le quattro libertà fondamentali dei moderni (la libertà personale, d'opinione, di riunione e di associazione) e con esse l'esercizio effettivo della democrazia. che cosa intendevano i costituenti per democrazia? secondo una definizione classica la democrazia è il potere di prendere decisioni collettive (ciò vincolanti per tutti) esercitato dal popolo, ossia da tutti i cittadini mediante la somma di libere scelte individuali. il principio democratico comporta innanzitutto il riconoscimento della cittadinanza a tutti gli individui, senza distinzioni di genere o d'altra natura. in effetti questo è anche il sessantesimo del suffragio femminile, evento da cui ha preso le mosse il processo di liberazione ed emancipazione che ha fatto enormemente progredire il paese nel suo complesso sia sui piani civile e culturale che su quelli materiale ed economico.
ora dobbiamo domandarci: che ne è di quei principi nella concretezza della nostra vita a sessanta anni dalla loro fondazione?
secondo la deterministica e pessimistica previsione di Polibio, la democrazia tende naturalmente a degenerare nelle mani dei nipoti dei suoi fondatori: in altre parole due generazioni, 50, 60 anni circa secondo i nostri standard. secondo questa teoria la democrazia degenera nella oclocrazia (il potere manesco, una sorta di tirannia della plebe) nella quale il popolo cade ad opera di ricchi corruttori che lo ingannano e lo inorgogliscono con lusinghe.
a che punto siamo nella nostra storia civile? è reale un rischio degenerativo simile o diverso?
certo, potremmo facilmente confortarsi osservando che esistono democrazie (quella americana) da ben più di due generazioni e quindi non vi è nessuna necessità inderogabile per noi di vedere degenerare la nostra. tuttavia non possiamo trascurare che la nostra storia nazionale è più recente e fragile e il senso dello stato generalmente più debole. inoltre è innegabile un senso di frustrazione diffusa e timori ricorrenti per la tenuta democratica del paese.
insomma, a che punto siamo? cosa dobbiamo temere, cosa dobbiamo sperare?
io penso che i motivi di speranza siano nonostante tutto più forti delle paure, poiché il gusto della libertà in tutte le sue espressioni è un piacere contagioso, che una volta assaggiato conquista chiunque.
quindi se è vero che la costituzione era il programma politico della Resistenza, la repubblica democratica che ne è scaturita è diventata davvero nella quale tutti (o quasi) si riconoscono, come aveva giustamente previsto calamandrei.
tuttavia sbaglieremmo a considerare la democrazia un fenomeno autoincrementale e a non vedere i rischi che incombono. forse non si tratta di rischi di un rovesciamento in senso stretto della democrazia, ma certo di un suo svuotamento.
infatti le istituzioni non vivono in un vuoto pneumatico, ma sono sottoposte alle sollecitazioni della storia e dei suoi sconvolgimenti. e il nostro è un tempo di grandi sfide: la crescita delle disuguaglianze (non solo economiche, ma anche culturali), il terrorismo e la guerra, il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, ecc.
di fronte a questi rischi è indispensabile mantenere fermi sul piano culturale e della coscienza civica gli elementi fondanti delle istituzioni repubblicane e democratiche, a cominciare dai concetti di libertà e uguaglianza. dicevo prima che la democrazia è il potere di prendere decisioni collettive da parte del popolo mediante la somma di libere scelte individuali di tutti i cittadini. in questa definizione ricorrono due espressioni: tutti i cittadini e libere scelte, che corrispondono in effetti alle nozioni di uguaglianza e libertà. essi sono in effetti i sostantivi che indicano i valori ultimi cui si ispira la democrazia , ma sono anche le condizioni senza le quali non si dà e non si conserva la democrazia. ma noi dobbiamo domandarci: quando si è liberi? che cosa vuol dire essere uguali? che rapporto c'è tra questi due sostantivi?
per definire l'uguaglianza, ad esempio, il pensiero greco classico utilizzava la parola isonomìa, che può essere tradotto con uguaglianza di legge, che non vuol dire solo, come di solito intendiamo noi, uguaglianza di fronte alla legge, ma anche attraverso la legge, dal che si ricava che la legge deve sempre restituire e promuovere l'uguaglianza, che diventa quindi un fine dello stato.
riguardo al nesso tra questi due sostantivi così importanti, mi pare che questa idea antica di uguaglianza (uguali attraverso la legge) si colleghi al nesso che l'articolo 3 della Carta Costituzionale impone alle istituzioni di promuovere l'uguaglianza per rendere effettiva la libertà.
se è vero infatti che la libertà è prima di tutto libertà di scelta degli scopi individuali, essa implica la possibilità di disporre dei mezzi necessari alla realizzazione di quei fini, pena la restrizione di tutte le libertà, allora la diseguale distribuzione dei mezzi, tanto diseguale che alcuni ne sono privi, rende vuota la libertà. perciò la politica dei diritti sociali che dia pari opportunità al figlio dell'operaio e a quello del professionista, non è incoerente con il principio liberale, ma è da esso richiesto. anche per questo è così importante garantire la giustizia sociale, combattere la precarietà, l'emarginazione, promuovere l'inclusione sociale.
per essere veramente liberi è però anche necessario che le nostre deliberazioni siano veramente autonome. per questo è necessario che lo spazio del dibattito pubblico in cui si forma la pubblica opinione (il vero sovrano negli stati democratici)sia debitamente presidiato per garantire il suo corretto funzionamento. anche qui entra in gioco l'uguaglianza: essendo la democrazia dialogo tra punti di vista diversi per la formazione di un orientamento, è necessario innanzitutto che le parole vengano usate con onestà, ma anche che non ci sia un divario eccessivo nel loro possesso: poche parole, poche idee. infatti, "è solo la lingua che fa eguali - scrive don Milani - eguale è chi sa esprimersi e intende l'espressione altrui" ecco perché una scuola egualitaria è condizione di democrazia.
ma siccome la democrazia non ha verità assolute da affermare e il suo compito è piuttosto quello di rendere confrontabili e com-patibili le diverse prospettive valoriali, allora è necessario che nel dibattito pubblico sia sempre presente lo spirito di ricerca sia l'affermazione di verità indiscutibili sia la dittatura dell'opinione che rende impossibile il vero confronto e insieme obbligatoria l'opinione della maggioranza. invece va sempre affermato che la verità è sempre in causa e non esiste una vox populi vox dei che trasformerebbe la voce della minoranza in vox diaboli. per questo il principio della laicità del diritto pubblico - mirabilmente sostenuto dal nostro Alberico gentili da San Ginesio - e dello stato non va considerato un residuo ottocentesco, ma un valore fondante delle libere istituzioni.
questo insieme di condizioni sfociano a mio modo di vedere in un elemento senza il quale nessuna democrazia può conservarsi. l'esistenza di individui socialmente responsabili, cioè individui - come scrive Bettelheim - che hanno il senso della propria identità, la convinzione di essere persone uniche, capaci di rapporti durevoli e profondamente significativi con altre persone e quindi responsabili delle proprie decisioni e in grado di assumerle. al polo opposto si trova la massa informe che è alla base dei regimi totalitari del secolo scorso, dominati da capipopolo a loro volta bisognosi di uomini-massa. la democrazia, perciò, proclamando l'uguaglianza non deve tendere all'omologazione, alla medietà conformistica, bensì promuovere l'autonomia e la diversità qualitativa.
anche per queste ragioni è così importante che una società sappia accogliere come un prezioso arricchimento chi viene da un'altra cultura e può innestare nella nostra società il lievito di una realtà diversa.
il nostro presente ci pone molte altre questioni che sfidano la vitalità delle istituzioni democratiche: la qualità dell'organizzazione della politica, la vita dei partiti, la salvaguardia della divisione dei poteri e dell'autonomia del potere giudiziario, ecc.
ma oggi l'accento va posto sull'impegno culturale e morale finalizzato alla riappropriazione consapevole dei valori fondanti della convivenza democratica, quei valori per i quali hanno dato la loro esistenza salvatore Troilo, Achille Barilatti e tutti gli altri, nella certezza che quegli ideali incarnano di una più nobile umanità.
con questo spirito guardiamo al futuro.
viva il 25 aprile
viva la repubblica
viva la Costituzione.
martedì 25 aprile 2006
LA MORTE DELLA PYTHIA
A MO' DI PREMESSA E AVVERTENZA
A dispetto della sua dimensione trascurabile (solo una sessantina di paginette) il racconto di Durrenmatt è molto denso e soprattutto complesso; si sviluppa come versione alternativa della tragedia sofoclea che qui naturalmente do per conosciuta: il re di Tebe Laio viene a sapere da un oracolo che verrà ucciso dal figlio che gli nascerà. Quando Giocasta sua moglie dà alla luce un bimbo il re lo fa esporre sul monte con i talloni forati (da qui il nome Edipo). Ma il pastore incaricato di esporre il bimbo lo sottrae a questa sorte, consegnandolo a Polibio re di Corinto. Il giovane diviene adulto, ma un giorno un suo coetaneo lo insulta mettendo in dubbio le sue origini. Edipo si reca a Delfi e riceve il terribile oracolo: ucciderai tuo padre e ti unirai con tua madre. Pensando di sfuggire al suo destino lascia Corinto e per caso incontra Laio e lo uccide. Si reca a Tebe, vince la Sfinge e diventa re sposando Giocasta (sua madre): l’oracolo si compie. Una peste colpisce Tebe. Edipo avvia un’inchiesta per conoscere la volontà del dio, e alla fine scopre che la peste è la conseguenza della sua colpa: Giocasta si uccide e Edipo si acceca mettendosi in cammino come mendico. La città viene contesa dai due figli maschi di Edipo (Eteocle e Polinice) che si ammazzano vicendevolmente e Creonte, fratello di Giocasta, sale sul trono. Segue la vicenda di Antigone. Ho scelto di ricostruire minuziosamente le varie scene e questo può appesantire l’esposizione, me ne scuso.
in effetti il racconto di Durrenmatt non è un’altra versione del mito di Edipo. Se mytos originariamente vuole dire racconto, la morte della Pizia è la negazione della possibilità di un racconto, cioè della narrazione di una realtà condivisa, la quale si frantuma invece in innumerevoli versioni l’una incompatibile con l’altra. La prima cosa che emerge è in effetti l’impossibilità di un logos comune che possa essere comunicabile e significativo. Il primo esito di questo processo è a prima vista del tutto negativo. Ciò che si infrange, però, non è solo la visione umana della realtà, ma la realtà stessa, poiché se è vero che l’uomo non ha abitato il mondo ma la rappresentazione della realtà che ha costruito (cioè la cultura con la quale ha elaborato e mediato il suo rapporto con il mondo) allora la frattura della capacità di costruire relazioni discorsive con le quali elaborare e condividere le esperienze, comporta la nientificazione del mondo, cioè la sua riduzione a pura contingenza. Cioè a qualcosa che esiste senza ragione né causa necessaria, a puro caso, appunto.
e qui assistiamo ad un nuovo paradossale rovesciamento: le concatenazioni di azioni e propositi che vengono narrati dai diversi protagonisti (Meneceo, Laio, Edipo, Tiresia, Giocasta e Sfinge= 6 oltre alla P. e al sottoscritto naturalmente) e che dovremmo considerare la catena causale degli eventi che ne conseguono costituisce invece un guazzabuglio indecifrabile nel quale non riusciamo a orientarci. Il mondo è più che mai un caos, e più ci si sforza di portarvi il proprio ordine (vedi Tiresia) più il caos aumenta. Le disgrazie di Edipo restano dunque senza cause, perché ogni spiegazione causale è smentita e annullata.
al contrario l’evento che a prima vista ci era apparso assolutamente gratuito e casuale (l’oracolo dispettoso della P.) risulta invece l’unico elemento permanente e compatibile in tutte le possibili varianti, e quindi l’unico elemento non casuale, necessario affinché avvenga ciò che avviene ( ma cosa in effetti avviene?) ciò che è casuale diventa qui necessario e ciò che invece si presenta come rivelazione della catena di nessi necessari che determina gli eventi, affonda nella contingenza della prospettiva autistica dei soggetti isolati, vittime di una allucinazione teoretica nella quale credono di vedere la verità, ma in realtà sono prigionieri nel labirinto della loro visione privata e parziale delle cose.
E qui appare l'altro possibile esito, meno deprimente del primo. Potremmo dire, infatti, che la questione che sta al centro della morte della P. non è se esista o no un logos comune, ma se esista o no un logos unico. Se cioè esiste la biblioteca di cui parla Deridda nell'introduzione a Lecture et la difference, cioè la biblioteca che contiene tutte le storie possibili e tutti i destini (e allora anche il giudizio della P. era già scritto) e questa biblioteca è la mente di Dio. Ovvero, questa biblioteca non esiste, e allora non c'è alcun filo che consenta di ricostruire la mappa del nostro labirinto e non ci sono neppure i soggetti che ne sono titolari, perché semmai esistono solo maschere cui tocca solo una parte in commedia). In questa prospettiva le storie semplicemente “accadono”, la loro dimensione è solo la contingenza. Non è detto però che questo esito sia necessariamente disperante, se è vero che può essere letto come la condizione e il presupposto di un'autentica fondazione della libertà, che è tale solo se non esiste un destino inderogabile. In questo senso non ha più carattere paradossale che il fondamento delle disgrazie di Edipo sia la libertà e non il destino, a cui Edipo vuole invece rimanere attaccato. E' questa l'ambiguità della nostra epoca.
LA VICENDA
Il racconto di Durrenmatt inizia con la P. che, stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, e di cattivo umore inventa di sana pianta uno oracolo per far arrabbiare quel principe di Corinto, Edipo, venuto a Delfi, claudicante, per sapere chi fossero davvero i suoi genitori. Il giovane se ne va con l’aria di uno a cui è stato annunciata davvero una disgrazia (è un credulone, pensa la P. e chissà che non faccia davvero qualche sciocchezza?).
Passano gli anni, la P. è sempre più vecchia e intollerante verso il baraccone pop che è Delfi e di anche cui lei fa parte. Ad un certo punto il gran sacerdote Merops che sovrintende il circo di Delfi le chiede di prestarsi alla richiesta di Tiresia, il veggente: far profetare al suo cliente (Creonte di Tebe) che la peste che affligge la città non cesserà fino a quando non si scoprirà il responsabile dell’assassinio del vecchio re Laio. L’attuale re è un certo Edipo, di cui la P. non si ricorda affatto. La P. accetta.
Soffermiamoci un attimo a confrontare il racconto di D. con la vicenda raccontata da Sofocle: l’oracolo non svela una verità divina, ma è il frutto della stizza e del capriccio. Nondimeno si avvera. Già così, la variazione si presenta intrigante: il divino sembra disertare il mondo, che però non perde per questo il suo carattere misterioso, arcano; si connota semmai di toni grotteschi: sono i capricci di una vecchia stizzosa che fanno il destino tragico degli uomini, ai quali in questo modo è tolta anche la grandezza del dolore provocato dalla trama oscura di voleri trascendenti; la sofferenza umana diventa così un evento insensato, frutto del caso, privato della dignità e della grandezza che gli conferisce nella tragedia di Sofocle il fatto di essere inscritto in un ordine necessario e implacabile, un ordine sovrumano che non lascia scampo.
E tuttavia, forse è troppo presto per trarre conclusioni, non solo perché la vicenda è appena all’inizio, ma anche perché i caratteri della P. che D. ci presenta fin dall’inizio hanno alcuni aspetti strani, ambigui vorrei dire: nel suo scetticismo religioso, infatti, la P. è paradossalmente fedele al motto delfico: “conosci te stesso; ella sa infatti perfettamente chi è: una cialtrona che imbonisce gli sciocchi che credono nell’esistenza di una verità remota, che possa ottenersi senza sforzo grazie alla rivelazione oracolare. Con E. però, sarà la stanchezza o il malumore come dice, lei non gioca il solito gioco ingannevole delle frasi ambigue che dicono tutto e il suo contrario. No, lo tenta con l’errore e l’orrore di una verità insopportabile: ucciderai tuo padre e ti unirai a tua madre. Queste parole sono lo scandalo (nella sua etimologia l’inciampo) che lo zoppo per antonomasia è costretto a superare diventando viandante del mondo (quindi un po’ dio un po’ filosofo) alla ricerca di se stesso o, che è lo stesso, in fuga da un se stesso insopportabile. Così la P. mette in moto un movimento veritativo che paradossalmente (ma non tanto) e involontariamente nasce dallo scetticismo.
Ma procediamo con il racconto.
A) Passa ancora del tempo e Edipo, accompagnato dalla figlia Antigone, si presenta alla P. E. narra alla P. gli avvenimenti che sono seguiti al suo oracolo secondo la nota versione di Sof. Al termine della narrazione la P. ride. Ma poi: “come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la P. ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso”.
Ecco dunque il dubbio insinuarsi in lei: come è possibile che un oracolo inventato per noia e dispetto abbia potuto avverarsi in modo così implacabile inserendosi in modo coerente con una trama di eventi, del tutto ignota alla P., e di per sé già tanto improbabile?
P. vuole capire, ha la tempra del poliziotto di tanti racconti di D. Inizia la sua indagine empirica – ovviamente rifiuta la spiegazione divina, la trama di un destino tessuto da entità sovrumane – e scopre nell’archivio del tempio di Delfi la traccia del primo oracolo quello che informava Laio che suo figlio lo avrebbe ucciso. Anche questo oracolo era in realtà un’idea di Tiresia. Così pensò di aver scoperto l’arcano il suo oracolo a Edipo si inseriva in una trama di cui era inventore Tiresia che aveva come scopo favorire la successione al trono di Tebe da parte di Creonte: infatti se Laio non avesse avuto figli il trono sarebbe passato al cognato Creonte; anche il secondo vaticinio di T. aveva lo stesso scopo: scoprire l’assassinio di Laio (E.) significava liberare il trono per Creonte.
B) a questo punto la P. si sente vicina alla morte. Iniziano le apparizioni. La prima apparizione è Meneceo “”un volto cupo e arcigno, capelli corvini, fronte bassa, occhi inespressivi, colorito terreo.”) è il padre di Giocasta e di Creonte. Un contadino inurbato, diventato impresario edile e appaltatore di lavori pubblici (in particolare della rocca di Cadmo che Laio sta costruendo). Appartiene alla stirpe degli uomini drago (gli uomini sorti di denti del drago ucciso da Cadmo. Appena spuntati da terra armati di tutto punto, vengono indotti da Cadmo a massacrarsi l’un l’altro, ne sopravvivono solo cinque che affiancheranno Cadmo nell’edificazione della città). In nonno di Meneceo è uno di questi (Udeo). Notare: anche Cadmo è indotto dall’oracolo di Delfi ad abbandonare la ricerca di sua sorella Europa per fondare Tebe). Meneceo disprezza Laio e ambisce al trono di Tebe per sé o per suo figlio Creonte. Però Creonte è ottusamente fedele al cognato. Così quando M. incontra T. concepisce, su istigazione di Tiresia un piano: far avere, tramite la P., un oracolo a L. con il quale lo si intimidisce: se avrai un figlio, ti ucciderà. Senza discendenza il regno sarebbe passato a Creonte. M. paga 50 mila talenti a Tiresia per la sua complicità. Dunque dietro a tutto vi sarebbe un sordido intrigo basato sull’ambizione e il desiderio di potere di un uomo meschino e invidioso.
C) Scompare M. e compare Laio (figura altera e regale), che riferisce a P. di aver immediatamente compreso che il mandante dell’oracolo di T. (quello appunto che gli annunciava la morte per mano del figlio) fosse M. perciò lo aveva ripagato con la sua stessa moneta: approfittando di una delle tante epidemie di peste si procura un oracolo di Delfi nel quale viene detto che l’epidemia sarebbe cessata solo se uno dei figli del drago si fosse sacrificato per il bene della città. M. è l’unico superstite di quella stirpe e quindi non ha altra scelta che buttarsi dalle mura (e non gli pesa neppure troppo farlo, perché i 50 mila talenti dati a T. per l’oracolo lo hanno fatto fallire). Pur sapendo che l’oracolo è frutto di un imbroglio, L. incomincia ad aver paura quando però nasce davvero E. L. confessa alla P. di preferire le giovani reclute alle donne e di aver sempre evitato il letto di G. che ha sposato solo per interesse, al fine di accattivarsi le simpatie del popolo (ecco un altro politico che gioca ad accattivarsi le masse e sbaglia i calcoli) però non può del tutto escludere che E. sia davvero suo figlio, concepito magari in un momento di ubriachezza. Perciò lo fa esporre. A questo punto ci troviamo di fronte ad una ulteriore versione degli stessi fatti, però ancora compatibile con quella di M. si tratta comunque di trame consapevoli, ancorché conflittuali e- come vedremo - mendaci, mentre resta curioso il modo con cui in tutto questo si sia inserito coerentemente l’oracolo del tutto inventato di P. che è diventato il tassello essenziale di una trama prodotta da volontà umane in conflitto. Come vedremo meglio in seguito, l’andamento della storia ricorda l’impossibile inchiesta sulla morte di un samurai raccontata da A. K. nel film Rashomon. Anche qui ogni testimone/protagonista narra una verità diversa ma possibile, e anche qui non ci sono innocenti; tutti sono colpevoli, ma non si tratta della colpa oggettiva della tragedia greca, né alla base della tragedia vi è un’aporia insuperabile delle cose, a questo punto della storia gli eventi tragici sono il frutto di un’insieme di volontà umane, affette dalla tracotanza dalla Hybris la colpa tipica di colui che non conosce il proprio limite, e quindi contravviene al motto delfico, in lotta tra loro. Ciononostante, questa vicenda, che si arricchisce di particolari non presenti in Sofocle non potrebbe essere ciò che in effetti è stata senza l’intervento imprevedibile (fatale si potrebbe dire) della P. che dice per gioco qualcosa che risulta essenziale al risultato. Anzi, come dirà in seguito T., “tu Pannychis (il nome della Pizia) vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i miei oracoli con fredda determinazione, con logica ineccepibile, insomma con razionalità. Ebbene devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro. Se fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile il tuo oracolo (io con la mia ragionevolezza ho messo in moto una catena di cause e di effetti che hanno dato luogo a un risultato esattamente opposto a quello che avevo in mente.” la “piccola quadrata ragione” come la chiama Nietzsche, fa ancora una volta naufragio (notare che che è una ragione maschile, ordinatrice, inferiore all'istinto e alla fantasia umorale del femminino rappresentato dalla Pizia).
Ma in questo orizzonte umano, troppo umano si potrebbe dire, la verità resta comunque irraggiungibile. Non solo perché, e lo vedremo meglio in seguito, nessuno dei protagonisti dice tutta la verità, o meglio ciascuno dice la sua verità. Tutti si presentano alla P. con la maschera che hanno indossato nel dramma; anzi sono costretti a assumerne diverse a seconda della versione fornita dal testimone di turno. Così il mondo è ridotto alla visione prospettica di chi parla. E pur essendo l’orizzonte della tragedia inscritto nella dimensione delle passioni umane – e quindi teoricamente più trasparente rispetto all’enigmaticità tipica del divino, non per questo risulta risolto il mistero della realtà, che resta indecifrabile, anche , e forse più ancora, dopo le confessioni dei testimoni protagonisti (come in Rashomon appunto). Ma oltre a ciò vi è qualcosa d’altro che resta del tutto oscuro; questo qualcosa lo potremmo definire con un ossimoro , la necessità del caso, e cioè la funzione d’ordine che assolve nella vicenda l’intervento assurdo e involontario della P.
D) compare E. giovane Nel rivederlo come era quando venne a chiedere l’oracolo, la P. comprende subito che sapeva già di non essere il figlio di Polibio e Merope (sovrani di Corinto). Infatti E. racconta di averlo sempre saputo (glielo aveva detto addirittura il pastore che lo aveva salvato). E. quindi non chiede ad Apollo (Delfi) ciò che già sa. Ma vuole “stanare il dio dal suo nascondiglio”. Che cosa vuol dire E.? lo vedremo tra breve.
L’oracolo (ucciderai tuo padre e sposerai tua madre) fu atroce, confessa E., che però non esita a farne uso per indagare la realtà, applicando ad esso la logia deduttiva: quando gli capiterà di uccidere qualcuno saprà che quello è suo padre. Perciò quando incontra L., che non conosce, e lo uccide, comprende che quello è suo padre. E. usa la logica, ma… 8anche in questo caso la logica si manifesta difettosa e comunque condizionata da altre passioni). Ma Laio non è il solo che E. uccide quel giorno, perché in realtà ammazza (prima ancora di finire L.) l’ufficiale di guardia che accompagna Laio. Di costui non ricorda neppure il nome. Eppure, secondo la sua stessa logica, avrebbe potuto essere lui e non il vecchio, suo padre. Errore inconscio? Rimozione (non sa neppure più come si chiamava la sua altra vittima!) insomma, anche in questa versione, mi pare, E. resta saldamente sul lettino dello psicanalista!
Tanto più che E. confessa anche che alla base del suo agire c’è l’odio verso i propri genitori, che avevano cercato di gettarlo in pasto alle fiere. Dopo aver ucciso L. decide di diventare re di Tebe per vendicarsi anche di sua madre Giocasta. Attraverso ciò, però, E. vuole più di ogni altra cosa vendicarsi degli dei che sono i veri responsabili di tutto: “ gli dei avevano decretato quella mostruosità e dunque quella mostruosità doveva compiersi. “ E. crede negli dei ( e in particolare in Apollo). Infatti è devoto alla loro volontà , anche quando questa mostra il suo volto feroce e disumano. È per questo che è andato a stanare Apollo. A differenza di M. e L., non ha un proprio progetto, ma vuole solo assecondare con furia il destino che gli è toccato, vuole bere fino in fondo il calice del dolore a cui non c’è scampo. Uomo del destino, E. è privo di una propria volontà, o meglio, la sua volontà è inflessibilmente quella di realizzare il suo destino. Anzi, senza questo volere che lo trascende e dà l’orientamento alla sua vita, non trova pace (appunto va a stanare Apollo). La sua gloria è questo cupio dissolvi (la morte dei suoi genitori e la sua disgrazia grazie ai quali egli si vendica della vita e di chi ha la colpa di avergli trasmesso questa malattia, l’untore che gli ha attaccato la peste che è la vita stessa: “gli dei mi avevano fatto dono del privilegio più grande che mente umana possa concepire, la sublime libertà di odiare quelli che ci hanno messo al mondo, i genitori, e poi gli antenati che a loro volta hanno generato i genitori, e ancora più su, gli dei che hanno generato gli antenati e i genitori, e se cieco e mendico, vado errando ramingo per la Grecia, non è certo per magnificare la potenza degli dei, bensì per dileggiarla.”
Dunque l’unica libertà dalla catena inesorabile del dolore che è la vita, consiste nello smascherarne il volto crudele, assecondando la sua terribile necessità. E. dunque odia la vita e sa che non può scampare ad essa: perciò sguazza nel suo fango per dileggiarne ogni versione consolatoria e pia. Il suo volto assume i tratti patibolari del condannato a morte che insulta e provoca il suo boia in modo da rendere più crudeli e suoi tormenti e più osceno lo spettacolo della sua morte.
MA (e è un ma di non poco conto) 1) E. sa che l’oracolo della P. è stato solo un gioco e non la volontà di Febo; come dobbiamo interpretare questa situazione? Forse per E. non fa differenza perché non c’è nessun atto veramente libero, ma tutto ciò che accade è inscritto in una catena inesorabile che comprende anche ciò che soggettivamente vorrebbe essere puro arbitrio? Oppure E. sa ciò che la stessa Pizia ignora, e cioè che in realtà la sua bocca ha veramente pronunciato l’oracolo del dio? 2)inconsciamente (?) E. sbaglia il proprio bersaglio (secondo la versione di Giocasta e di Sfinge che vedremo tra un attimo) non è Laio suo padre e non è neppure Giocasta sua madre. Eppure, anche con questo errore soggettivo il suo destino si compie lo stesso. E se il suo odio e la sua vendetta si rivolgono verso oggetti immaginari (trafigge con gusto Laio e gode con astio nell’accoppiarsi con la madre Giocasta, “le piantai quattro figli nella pancia… e ogni volta che montavo mia madre il mio odio (per gli dei) diventava più grande”, nondimeno egli compie davvero quelle azioni con i suoi veri genitori.
Edipo dunque continua a soffrire del complesso edipico: il suo rapporto con i genitori (siano essi L. e G. o l’ufficiale di guardia e la Sfinge) e con gli dei (immagine potenziata dei genitori) continua ad essere ambivalente: essi lo attraggono con la forza della loro potenza inderogabile che bisogna adempiere nella sua feroce crudeltà (tipica posizione sadomasochista nei confronti del potere come fonte allo stesso tempo di forza che punisce e protegge, come ha sostenuto Fromm di Fuga dalla libertà) e odio per la loro insensibilità (Laio e g. lo hanno abbandonato, così come lo aveva Febo ad una esistenza di dolore insensato).
In questa fase la P. appare sempre più come un testimone impotente, una povera donna sola e sbalestrata, risentita e idealista. Se fosse vissuta in un’altra epoca sarebbe stata una perfetta strega da mandare al rogo!
E) compare l’ombra di Giocasta. Anche lei sa tutto (ancora prima delle nozze con E. ha intuito che quello era suo figlio). Dice che E. era ingenuo perché pensava di essersi sottratto al decreto degli dei (quindi in realtà ingenua è Giocasta, perché E. l’ha ingannata). Però non gli ha detto di sapere chi fosse, né che L. fosse suo padre ) e come poteva, visto che era un omosessuale ? – ennesima versione riguardo a L. – . poi sapremo che addirittura era stato evirato (forse!) Giocasta dice che il vero padre di E. è Mnesippo (dopo Laio, Polito, l’ufficiale di guardia, il quarto padre per il povero E.!). anche Mnesippo è stato ucciso da E. (manco a dirlo) perché questi voleva impedirgli di entrare nel letto di Giocasta – parricidio plasticamente edipico!)
Giocasta è entusiasta, sprizza di piacere per l’unione con E. Ama il figlio ed è convinta che il figlio la riami (povera donna! E. la odia). È anche felice di essere stata impiccata – svela che non è vera la versione del suo suicidio – perché in questo modo ha adempiuto al decreto divino. A questo punto Pizia va su tutte le furie e insulta G.: “carogna! Sai benissimo che quell’oracolo è tutto un imbroglio inventato da me di sana pianta”. Non può sopportare che l’inganno continui, che sfacciatamente si continui ad usare il suo miserabile gioco per giustificare le menzogne più spudorate.
F) a questo punto entra in scena Tiresia. Anche lui sta morendo e vuole compiere il passaggio all’Ade con la P. Lei si accorge che lui non è affatto cieco Tiresia dice che l’unica cosa che rende sopportabile il presente è l’ignoranza del futuro, e invece gli uomini non fanno che cercare di sapere. Qui c’è un totale rovesciamento del rapporto del greco con la conoscenza. Come scrive Giorgio Colli ne La nascita della filosofia, “Delfi fu un’immagine unificante, un’abbreviazione della Grecia stessa” perché sta ad indicare che “la conoscenza fu, per i greci, il massimo valore della vita. Altri popoli conobbero, esaltarono il valore della divinazione, ma nessun popolo (come i greci) la innalzò a simbolo decisivo” (p. 16). Qui invece T. considera la conoscenza un male assurdo poi conferma il racconto di Meneceo. Ma con una variante: Tiresia ha effettivamente confezionato l’oracolo per Laio (quello che lo avvertiva di un figlio parricida, che peraltro Laio non avrebbe mai potuto avere) perché voleva mettere in disgrazia Creonte e impedire la sua successione al trono. Cioè l’esatto contrario di ciò che voleva il povero Meneceo. Perché? Perché T. è un democratico razionalista (un illuminista, potremmo dire) consapevole della decadenza della tradizione, vuole scongiurare la dittatura di Creonte: “che Creonte sia fedele te lo concedo, (…) ma tu non scordare che non c’è dittatura senza fedeltà, la fedeltà è la solida roccia sulla quale si erige lo stato totalitario”.
Con l’oracolo T. vuole indurre L. ad adottare Anfitrione (un generale capace e amabile). Come king maker T. è una frana, perché Laio si comporta in tutt’altro modo. A questo punto T. racconta alla P. la vera storia della Sfinge: una donna bellissima figlia di Laio (proprio lui!) e Ippodamia. Costei era moglie di Pelope, il quale per vendicarsi di Laio lo evira! E Ippodamia consacra la figlia a Hermes. Perché però Sfinge tenesse il padre e la città sotto la sua minaccia Tiresia non lo sa.
A questo punto P. e T. incominciano a riflettere: la storia della Sfinge è irrilevante sostiene P. ma T. replica “non esistono storie irrilevanti. Tutto è connesso con tutto dovunque si cambi qualcosa il cambiamento riguarda il tutto”. La realtà è quindi un caleidoscopio in cui ogni azione influenza tutto il resto e non vi è nulla di casuale. Tiresia spiega anche il perché del secondo oracolo: se Creonte avesse saputo che E. aveva ucciso il padre e sposato la madre divenendo re di Tebe, avrebbe cacciato E. dal trono e avrebbe instaurato un regime totalitario sul modello spartano (da cui si evince che per T la libertà è garantita solo da un certo grado di vizio, perché la perfezione (quella di Creonte) genera oppressione e dittatura. Oggi le cose forse stanno diversamente e un regime autoritario si può concepire meglio all’ombra della complicità nel vizio e nella mediocrità. O no? Fatto sta che anche questa volta T. fallisce, perché, a suo dire, G. gli aveva nascosto che fosse stato proprio E. a uccidere Laio.
L’amara conclusione di Tiresia: “ora Creonte sta edificando il suo stato totalitario. Quello che volevo evitare è accaduto”. Ecco un altro che per evitare un evento temuto gli finisce in bocca e collabora alla sua realizzazione. D’altra parte – e fa specie che T. che aveva iniziato maledicendo la conoscenza e dichiarato che la realtà è soggetta ad una variazione infinita di rapporti che ne modifica continuamente il divenire non ne abbia tenuto conto - la realtà è così complessa, è un’equazione con infinite incognite, che è illusorio poterla padroneggiare e dirigere a nostro piacimento. Ognuno sa solo qualcosa , e ogni sua azione – per definizione cieca, almeno in parte – cambia il quadro, che non può essere mai ricomposto, nemmeno (o forse soprattutto) a posteriori. In questo senso T. ci riappare molto più greco di quello che lui stesso voleva sembrare inizialmente, quando denigrava la conoscenza, poiché anche lui mostra la stessa fiducia forsennata nella capacità dell’agire umano di costruire un diverso destino. Che caratterizzò i greci, a dispetto del concetto potentissimo che ebbero del destino.
G) compare a questo punto Sfinge, o meglio, compaiono le leonesse che la sbranano e la rigettano (le sue membra si ricompongono con il peplo trasparente che ne copre e scopre il corpo bellissimo). Il supplizio è destinato a riprodursi in eterno e in ciò la sfinge di Durrenmatt ricorda la novella di Nastagio degli Onesti di Boccaccio)
La Sf. rivela che Laio non era ciò che sembrava e che T. credeva: era anche lui un tiranno perfido e superstizioso” ma la sua tirannia era sopportabile perché non si ispirava a ideali di giustizia. (p.53) Laio era un despota felice di esserlo, ma non accettava che essendo evirato con lui finisse la stirpe di Cadmo. Un giorno fece violentare la Sfinge dal suo ufficiale di Guardia (si chiamava Polifonie e così sappiamo il nome dell’ennesimo padre di Edipo) Nello stesso periodo G. partorì il figlio avuto dall’altro soldato, Mnesippo. Ovviamente Sf. ignorava lo stupido oracolo che T. aveva formulato. Laio perciò pensa di liberarsi di entrambi i bambini. Un giorno Sf. si vede arrivare un pastore che gli porta il figlio di G. e Mnesippo con i calcagni forati (potremmo chiamarlo Edipo 1) con l’ordine di Laio di farlo sbranare dalle leonesse insieme al figlio di Sf. e Polifonte. Ma Giocasta aveva corrotto il pastore perché consegnasse il suo bambino a Polibo, badando a non rivelargli la sua origine. Con uno stratagemma Sf. riesce a carpire questo segreto al pastore e quindi getta Edipo 1 alle belve, poi trafigge i calcagni a suo figlio e lo consegna al pastore. Così il figlio di Sf. e Polifonie diventa Edipo (2). Laio sospetta ma non può estorcere la confessione a Sfinge perché le leonesse la difendono. Quando Edipo 2 incontra Laio uccide in realtà suo padre (l’ufficiale di guardia Polifonte) e suo nonno (Laio). Delitto edipico elevato alla potenza si potrebbe dire. Poi, arrivato a Tebe, scioglie l’enigma della Sfinge, ma anziché ucciderla ne diventa l’amante, realizzando così l’oracolo della povera P., che con il suo scherzo non ha scampo in nessuna delle contraddittorie versioni. In ognuna di esse si realizza ciò che lei aveva profetato per dispetto.
Qui si conclude la teoria delle apparizioni. E prima di concludere leggendo il discorso con il quale T. chiude il racconto riproponendo il carattere enigmatico del mondo e l’ambiguità degli sforzi umani di interpretarlo, vorrei però avanzare un’ipotesi che forse è ignota alo stesso Durrenmatt. La mia ipotesi è che vi sia un ultimo personaggio che non è mai apparso in primo piano, ma che secondo la sensibilità greca – in questo senso quindi non di Durrenmatt – è il vero artefice di tutto: costui è Apollo il luminoso. Noi siamo partiti dalla affermazione, l’unica mai messa in discussione, che P. abbia profetato per capriccio. Ma siamo sicuri che sia così? Nella tradizionale rappresentazione della profetazione delfica e nella natura di Apollo vi sono alcuni indizi che potrebbero metterci su un'altra strada. Eraclito, infatti, dice di Febo: la Sibilla con bocca folle dice attraverso il dio cose senza riso, né ornamento, né unguento.” E la follia (la Mania di cui parla Platone nel Fedro) la condizione che rende possibile la profetazione oracolare. E chi ci dice che la pazzerella P. non fosse posseduta dal dio proprio quando, presa da quel malumore, le saltò quel ghiribizzo? In un altro passo del Timeo Platone scrive infatti: vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.” E non è un caso, forse, che solo nell’agonia della morte, quando la malattia della vita raggiunge il suo culmine, che la P. può avere una visione completa della assurdità del reale. Perché Apollo avrebbe però nascosto la sua azione e anziché agire direttamente avrebbe diretto da lontano, sfruttando i vizi e le presunzioni umane? Ciò si spiega con la natura di Febo, che viene spesso definito “colui che agisce da lontano. “L’attributo del dio, l’arco arma asiatica, allude ad un’azione indiretta, mediata, differita. Qui si tocca l’aspetto della crudeltà (…) la distruzione, la violenza differita è tipica di Apollo. Non a caso l’etimologia stessa dl su nome ha questo senso derivando dal verbo apollumi (απολλύμι), che vuol dire appunto distruggo. Apollo può essere inteso come distruttore, sterminatore, colui che distrugge totalmente. E infatti potremmo dire , il racconto si chiude con queste parole: “la Pizia non rispose, tutt’a un tratto non c’era più e anche Tiresia era scomparso e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si era inabissata.” Uno spettacolo di distruzione totale,dunque, degno di Apollo il distruttore.
In un passo di Pindaro le parole profetiche di Apollo sono paragonate alle frecce del suo arco che si rivolgono contro il mondo umano “attraverso il tessuto delle parole e dei pensieri”. (Colli) Apollo è un dio ambiguo come il suo simbolo, il cui nome in greco ha lo stesso suono del nome vita. Bìos e bìòs sono nello stesso momento la vita e la morte, la vita e l’arco che dà la morte. In questo senso Apollo non è che la metafora della duplice natura del vivente che è una forza ebbra che genera distruggendo e generando distrugge. Il frammento arcinoto di Anassimandro ce lo conferma: “ da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità” ecco allora ciò che il dio ci dice è che la vita è questo labirinto in cui siamo gettati, come dice Platone nell’Eutidemo. Il questo caos, l’uomo cerca faticosamente di trovare il filo del senso, di costruire delle isole d’ordine nel mare dell’entropia dilagante. In questo sforzo di dare un senso all’enigma, di portare ordine nel caos, razionalità dove regna solo il caso, l’uomo sarà sempre sconfitto. Anzi i suoi stessi sforzi saranno il piedistallo su cui si solleverà l’astuzia della vita e del destino, come potremmo dire parafrasando Hegel. Ma questa è anche la loro unica possibilità e dignità, come ciechi orientarsi nel buio con il loro umanissimo métron. Anche questo, infatti, dice Apollo quando mostra il suo lato benevolo, quando cioè non parla con parole indistinte, “bensì con precetti come ‘ nulla di troppo ’ oppure ‘conosci te stesso ’. Il dio accenna all’uomo che la sfera divina è sconfinata, insondabile, capricciosa, folle priva di necessità, tracotante, ma la manifestazione di essa nella sfera umana suona come un’imperiosa norma di moderazione, di controllo di limite, di ragionevolezza, di necessità.”
A MO' DI PREMESSA E AVVERTENZA
A dispetto della sua dimensione trascurabile (solo una sessantina di paginette) il racconto di Durrenmatt è molto denso e soprattutto complesso; si sviluppa come versione alternativa della tragedia sofoclea che qui naturalmente do per conosciuta: il re di Tebe Laio viene a sapere da un oracolo che verrà ucciso dal figlio che gli nascerà. Quando Giocasta sua moglie dà alla luce un bimbo il re lo fa esporre sul monte con i talloni forati (da qui il nome Edipo). Ma il pastore incaricato di esporre il bimbo lo sottrae a questa sorte, consegnandolo a Polibio re di Corinto. Il giovane diviene adulto, ma un giorno un suo coetaneo lo insulta mettendo in dubbio le sue origini. Edipo si reca a Delfi e riceve il terribile oracolo: ucciderai tuo padre e ti unirai con tua madre. Pensando di sfuggire al suo destino lascia Corinto e per caso incontra Laio e lo uccide. Si reca a Tebe, vince la Sfinge e diventa re sposando Giocasta (sua madre): l’oracolo si compie. Una peste colpisce Tebe. Edipo avvia un’inchiesta per conoscere la volontà del dio, e alla fine scopre che la peste è la conseguenza della sua colpa: Giocasta si uccide e Edipo si acceca mettendosi in cammino come mendico. La città viene contesa dai due figli maschi di Edipo (Eteocle e Polinice) che si ammazzano vicendevolmente e Creonte, fratello di Giocasta, sale sul trono. Segue la vicenda di Antigone. Ho scelto di ricostruire minuziosamente le varie scene e questo può appesantire l’esposizione, me ne scuso.
in effetti il racconto di Durrenmatt non è un’altra versione del mito di Edipo. Se mytos originariamente vuole dire racconto, la morte della Pizia è la negazione della possibilità di un racconto, cioè della narrazione di una realtà condivisa, la quale si frantuma invece in innumerevoli versioni l’una incompatibile con l’altra. La prima cosa che emerge è in effetti l’impossibilità di un logos comune che possa essere comunicabile e significativo. Il primo esito di questo processo è a prima vista del tutto negativo. Ciò che si infrange, però, non è solo la visione umana della realtà, ma la realtà stessa, poiché se è vero che l’uomo non ha abitato il mondo ma la rappresentazione della realtà che ha costruito (cioè la cultura con la quale ha elaborato e mediato il suo rapporto con il mondo) allora la frattura della capacità di costruire relazioni discorsive con le quali elaborare e condividere le esperienze, comporta la nientificazione del mondo, cioè la sua riduzione a pura contingenza. Cioè a qualcosa che esiste senza ragione né causa necessaria, a puro caso, appunto.
e qui assistiamo ad un nuovo paradossale rovesciamento: le concatenazioni di azioni e propositi che vengono narrati dai diversi protagonisti (Meneceo, Laio, Edipo, Tiresia, Giocasta e Sfinge= 6 oltre alla P. e al sottoscritto naturalmente) e che dovremmo considerare la catena causale degli eventi che ne conseguono costituisce invece un guazzabuglio indecifrabile nel quale non riusciamo a orientarci. Il mondo è più che mai un caos, e più ci si sforza di portarvi il proprio ordine (vedi Tiresia) più il caos aumenta. Le disgrazie di Edipo restano dunque senza cause, perché ogni spiegazione causale è smentita e annullata.
al contrario l’evento che a prima vista ci era apparso assolutamente gratuito e casuale (l’oracolo dispettoso della P.) risulta invece l’unico elemento permanente e compatibile in tutte le possibili varianti, e quindi l’unico elemento non casuale, necessario affinché avvenga ciò che avviene ( ma cosa in effetti avviene?) ciò che è casuale diventa qui necessario e ciò che invece si presenta come rivelazione della catena di nessi necessari che determina gli eventi, affonda nella contingenza della prospettiva autistica dei soggetti isolati, vittime di una allucinazione teoretica nella quale credono di vedere la verità, ma in realtà sono prigionieri nel labirinto della loro visione privata e parziale delle cose.
E qui appare l'altro possibile esito, meno deprimente del primo. Potremmo dire, infatti, che la questione che sta al centro della morte della P. non è se esista o no un logos comune, ma se esista o no un logos unico. Se cioè esiste la biblioteca di cui parla Deridda nell'introduzione a Lecture et la difference, cioè la biblioteca che contiene tutte le storie possibili e tutti i destini (e allora anche il giudizio della P. era già scritto) e questa biblioteca è la mente di Dio. Ovvero, questa biblioteca non esiste, e allora non c'è alcun filo che consenta di ricostruire la mappa del nostro labirinto e non ci sono neppure i soggetti che ne sono titolari, perché semmai esistono solo maschere cui tocca solo una parte in commedia). In questa prospettiva le storie semplicemente “accadono”, la loro dimensione è solo la contingenza. Non è detto però che questo esito sia necessariamente disperante, se è vero che può essere letto come la condizione e il presupposto di un'autentica fondazione della libertà, che è tale solo se non esiste un destino inderogabile. In questo senso non ha più carattere paradossale che il fondamento delle disgrazie di Edipo sia la libertà e non il destino, a cui Edipo vuole invece rimanere attaccato. E' questa l'ambiguità della nostra epoca.
LA VICENDA
Il racconto di Durrenmatt inizia con la P. che, stizzita per la scemenza dei suoi stessi oracoli e per l’ingenua credulità dei Greci, e di cattivo umore inventa di sana pianta uno oracolo per far arrabbiare quel principe di Corinto, Edipo, venuto a Delfi, claudicante, per sapere chi fossero davvero i suoi genitori. Il giovane se ne va con l’aria di uno a cui è stato annunciata davvero una disgrazia (è un credulone, pensa la P. e chissà che non faccia davvero qualche sciocchezza?).
Passano gli anni, la P. è sempre più vecchia e intollerante verso il baraccone pop che è Delfi e di anche cui lei fa parte. Ad un certo punto il gran sacerdote Merops che sovrintende il circo di Delfi le chiede di prestarsi alla richiesta di Tiresia, il veggente: far profetare al suo cliente (Creonte di Tebe) che la peste che affligge la città non cesserà fino a quando non si scoprirà il responsabile dell’assassinio del vecchio re Laio. L’attuale re è un certo Edipo, di cui la P. non si ricorda affatto. La P. accetta.
Soffermiamoci un attimo a confrontare il racconto di D. con la vicenda raccontata da Sofocle: l’oracolo non svela una verità divina, ma è il frutto della stizza e del capriccio. Nondimeno si avvera. Già così, la variazione si presenta intrigante: il divino sembra disertare il mondo, che però non perde per questo il suo carattere misterioso, arcano; si connota semmai di toni grotteschi: sono i capricci di una vecchia stizzosa che fanno il destino tragico degli uomini, ai quali in questo modo è tolta anche la grandezza del dolore provocato dalla trama oscura di voleri trascendenti; la sofferenza umana diventa così un evento insensato, frutto del caso, privato della dignità e della grandezza che gli conferisce nella tragedia di Sofocle il fatto di essere inscritto in un ordine necessario e implacabile, un ordine sovrumano che non lascia scampo.
E tuttavia, forse è troppo presto per trarre conclusioni, non solo perché la vicenda è appena all’inizio, ma anche perché i caratteri della P. che D. ci presenta fin dall’inizio hanno alcuni aspetti strani, ambigui vorrei dire: nel suo scetticismo religioso, infatti, la P. è paradossalmente fedele al motto delfico: “conosci te stesso; ella sa infatti perfettamente chi è: una cialtrona che imbonisce gli sciocchi che credono nell’esistenza di una verità remota, che possa ottenersi senza sforzo grazie alla rivelazione oracolare. Con E. però, sarà la stanchezza o il malumore come dice, lei non gioca il solito gioco ingannevole delle frasi ambigue che dicono tutto e il suo contrario. No, lo tenta con l’errore e l’orrore di una verità insopportabile: ucciderai tuo padre e ti unirai a tua madre. Queste parole sono lo scandalo (nella sua etimologia l’inciampo) che lo zoppo per antonomasia è costretto a superare diventando viandante del mondo (quindi un po’ dio un po’ filosofo) alla ricerca di se stesso o, che è lo stesso, in fuga da un se stesso insopportabile. Così la P. mette in moto un movimento veritativo che paradossalmente (ma non tanto) e involontariamente nasce dallo scetticismo.
Ma procediamo con il racconto.
A) Passa ancora del tempo e Edipo, accompagnato dalla figlia Antigone, si presenta alla P. E. narra alla P. gli avvenimenti che sono seguiti al suo oracolo secondo la nota versione di Sof. Al termine della narrazione la P. ride. Ma poi: “come di colpo era scoppiata a ridere, così di colpo la P. ammutolì quando le venne in mente che non tutto ciò che era accaduto poteva essere considerato frutto del caso”.
Ecco dunque il dubbio insinuarsi in lei: come è possibile che un oracolo inventato per noia e dispetto abbia potuto avverarsi in modo così implacabile inserendosi in modo coerente con una trama di eventi, del tutto ignota alla P., e di per sé già tanto improbabile?
P. vuole capire, ha la tempra del poliziotto di tanti racconti di D. Inizia la sua indagine empirica – ovviamente rifiuta la spiegazione divina, la trama di un destino tessuto da entità sovrumane – e scopre nell’archivio del tempio di Delfi la traccia del primo oracolo quello che informava Laio che suo figlio lo avrebbe ucciso. Anche questo oracolo era in realtà un’idea di Tiresia. Così pensò di aver scoperto l’arcano il suo oracolo a Edipo si inseriva in una trama di cui era inventore Tiresia che aveva come scopo favorire la successione al trono di Tebe da parte di Creonte: infatti se Laio non avesse avuto figli il trono sarebbe passato al cognato Creonte; anche il secondo vaticinio di T. aveva lo stesso scopo: scoprire l’assassinio di Laio (E.) significava liberare il trono per Creonte.
B) a questo punto la P. si sente vicina alla morte. Iniziano le apparizioni. La prima apparizione è Meneceo “”un volto cupo e arcigno, capelli corvini, fronte bassa, occhi inespressivi, colorito terreo.”) è il padre di Giocasta e di Creonte. Un contadino inurbato, diventato impresario edile e appaltatore di lavori pubblici (in particolare della rocca di Cadmo che Laio sta costruendo). Appartiene alla stirpe degli uomini drago (gli uomini sorti di denti del drago ucciso da Cadmo. Appena spuntati da terra armati di tutto punto, vengono indotti da Cadmo a massacrarsi l’un l’altro, ne sopravvivono solo cinque che affiancheranno Cadmo nell’edificazione della città). In nonno di Meneceo è uno di questi (Udeo). Notare: anche Cadmo è indotto dall’oracolo di Delfi ad abbandonare la ricerca di sua sorella Europa per fondare Tebe). Meneceo disprezza Laio e ambisce al trono di Tebe per sé o per suo figlio Creonte. Però Creonte è ottusamente fedele al cognato. Così quando M. incontra T. concepisce, su istigazione di Tiresia un piano: far avere, tramite la P., un oracolo a L. con il quale lo si intimidisce: se avrai un figlio, ti ucciderà. Senza discendenza il regno sarebbe passato a Creonte. M. paga 50 mila talenti a Tiresia per la sua complicità. Dunque dietro a tutto vi sarebbe un sordido intrigo basato sull’ambizione e il desiderio di potere di un uomo meschino e invidioso.
C) Scompare M. e compare Laio (figura altera e regale), che riferisce a P. di aver immediatamente compreso che il mandante dell’oracolo di T. (quello appunto che gli annunciava la morte per mano del figlio) fosse M. perciò lo aveva ripagato con la sua stessa moneta: approfittando di una delle tante epidemie di peste si procura un oracolo di Delfi nel quale viene detto che l’epidemia sarebbe cessata solo se uno dei figli del drago si fosse sacrificato per il bene della città. M. è l’unico superstite di quella stirpe e quindi non ha altra scelta che buttarsi dalle mura (e non gli pesa neppure troppo farlo, perché i 50 mila talenti dati a T. per l’oracolo lo hanno fatto fallire). Pur sapendo che l’oracolo è frutto di un imbroglio, L. incomincia ad aver paura quando però nasce davvero E. L. confessa alla P. di preferire le giovani reclute alle donne e di aver sempre evitato il letto di G. che ha sposato solo per interesse, al fine di accattivarsi le simpatie del popolo (ecco un altro politico che gioca ad accattivarsi le masse e sbaglia i calcoli) però non può del tutto escludere che E. sia davvero suo figlio, concepito magari in un momento di ubriachezza. Perciò lo fa esporre. A questo punto ci troviamo di fronte ad una ulteriore versione degli stessi fatti, però ancora compatibile con quella di M. si tratta comunque di trame consapevoli, ancorché conflittuali e- come vedremo - mendaci, mentre resta curioso il modo con cui in tutto questo si sia inserito coerentemente l’oracolo del tutto inventato di P. che è diventato il tassello essenziale di una trama prodotta da volontà umane in conflitto. Come vedremo meglio in seguito, l’andamento della storia ricorda l’impossibile inchiesta sulla morte di un samurai raccontata da A. K. nel film Rashomon. Anche qui ogni testimone/protagonista narra una verità diversa ma possibile, e anche qui non ci sono innocenti; tutti sono colpevoli, ma non si tratta della colpa oggettiva della tragedia greca, né alla base della tragedia vi è un’aporia insuperabile delle cose, a questo punto della storia gli eventi tragici sono il frutto di un’insieme di volontà umane, affette dalla tracotanza dalla Hybris la colpa tipica di colui che non conosce il proprio limite, e quindi contravviene al motto delfico, in lotta tra loro. Ciononostante, questa vicenda, che si arricchisce di particolari non presenti in Sofocle non potrebbe essere ciò che in effetti è stata senza l’intervento imprevedibile (fatale si potrebbe dire) della P. che dice per gioco qualcosa che risulta essenziale al risultato. Anzi, come dirà in seguito T., “tu Pannychis (il nome della Pizia) vaticinasti con fantasia, capriccio, arroganza, addirittura con insolenza irriguardosa, insomma: con arguzia blasfema. Io invece commissionai i miei oracoli con fredda determinazione, con logica ineccepibile, insomma con razionalità. Ebbene devo ammettere che il tuo oracolo ha fatto centro. Se fossi un matematico potrei dirti con esattezza quanto fosse improbabile il tuo oracolo (io con la mia ragionevolezza ho messo in moto una catena di cause e di effetti che hanno dato luogo a un risultato esattamente opposto a quello che avevo in mente.” la “piccola quadrata ragione” come la chiama Nietzsche, fa ancora una volta naufragio (notare che che è una ragione maschile, ordinatrice, inferiore all'istinto e alla fantasia umorale del femminino rappresentato dalla Pizia).
Ma in questo orizzonte umano, troppo umano si potrebbe dire, la verità resta comunque irraggiungibile. Non solo perché, e lo vedremo meglio in seguito, nessuno dei protagonisti dice tutta la verità, o meglio ciascuno dice la sua verità. Tutti si presentano alla P. con la maschera che hanno indossato nel dramma; anzi sono costretti a assumerne diverse a seconda della versione fornita dal testimone di turno. Così il mondo è ridotto alla visione prospettica di chi parla. E pur essendo l’orizzonte della tragedia inscritto nella dimensione delle passioni umane – e quindi teoricamente più trasparente rispetto all’enigmaticità tipica del divino, non per questo risulta risolto il mistero della realtà, che resta indecifrabile, anche , e forse più ancora, dopo le confessioni dei testimoni protagonisti (come in Rashomon appunto). Ma oltre a ciò vi è qualcosa d’altro che resta del tutto oscuro; questo qualcosa lo potremmo definire con un ossimoro , la necessità del caso, e cioè la funzione d’ordine che assolve nella vicenda l’intervento assurdo e involontario della P.
D) compare E. giovane Nel rivederlo come era quando venne a chiedere l’oracolo, la P. comprende subito che sapeva già di non essere il figlio di Polibio e Merope (sovrani di Corinto). Infatti E. racconta di averlo sempre saputo (glielo aveva detto addirittura il pastore che lo aveva salvato). E. quindi non chiede ad Apollo (Delfi) ciò che già sa. Ma vuole “stanare il dio dal suo nascondiglio”. Che cosa vuol dire E.? lo vedremo tra breve.
L’oracolo (ucciderai tuo padre e sposerai tua madre) fu atroce, confessa E., che però non esita a farne uso per indagare la realtà, applicando ad esso la logia deduttiva: quando gli capiterà di uccidere qualcuno saprà che quello è suo padre. Perciò quando incontra L., che non conosce, e lo uccide, comprende che quello è suo padre. E. usa la logica, ma… 8anche in questo caso la logica si manifesta difettosa e comunque condizionata da altre passioni). Ma Laio non è il solo che E. uccide quel giorno, perché in realtà ammazza (prima ancora di finire L.) l’ufficiale di guardia che accompagna Laio. Di costui non ricorda neppure il nome. Eppure, secondo la sua stessa logica, avrebbe potuto essere lui e non il vecchio, suo padre. Errore inconscio? Rimozione (non sa neppure più come si chiamava la sua altra vittima!) insomma, anche in questa versione, mi pare, E. resta saldamente sul lettino dello psicanalista!
Tanto più che E. confessa anche che alla base del suo agire c’è l’odio verso i propri genitori, che avevano cercato di gettarlo in pasto alle fiere. Dopo aver ucciso L. decide di diventare re di Tebe per vendicarsi anche di sua madre Giocasta. Attraverso ciò, però, E. vuole più di ogni altra cosa vendicarsi degli dei che sono i veri responsabili di tutto: “ gli dei avevano decretato quella mostruosità e dunque quella mostruosità doveva compiersi. “ E. crede negli dei ( e in particolare in Apollo). Infatti è devoto alla loro volontà , anche quando questa mostra il suo volto feroce e disumano. È per questo che è andato a stanare Apollo. A differenza di M. e L., non ha un proprio progetto, ma vuole solo assecondare con furia il destino che gli è toccato, vuole bere fino in fondo il calice del dolore a cui non c’è scampo. Uomo del destino, E. è privo di una propria volontà, o meglio, la sua volontà è inflessibilmente quella di realizzare il suo destino. Anzi, senza questo volere che lo trascende e dà l’orientamento alla sua vita, non trova pace (appunto va a stanare Apollo). La sua gloria è questo cupio dissolvi (la morte dei suoi genitori e la sua disgrazia grazie ai quali egli si vendica della vita e di chi ha la colpa di avergli trasmesso questa malattia, l’untore che gli ha attaccato la peste che è la vita stessa: “gli dei mi avevano fatto dono del privilegio più grande che mente umana possa concepire, la sublime libertà di odiare quelli che ci hanno messo al mondo, i genitori, e poi gli antenati che a loro volta hanno generato i genitori, e ancora più su, gli dei che hanno generato gli antenati e i genitori, e se cieco e mendico, vado errando ramingo per la Grecia, non è certo per magnificare la potenza degli dei, bensì per dileggiarla.”
Dunque l’unica libertà dalla catena inesorabile del dolore che è la vita, consiste nello smascherarne il volto crudele, assecondando la sua terribile necessità. E. dunque odia la vita e sa che non può scampare ad essa: perciò sguazza nel suo fango per dileggiarne ogni versione consolatoria e pia. Il suo volto assume i tratti patibolari del condannato a morte che insulta e provoca il suo boia in modo da rendere più crudeli e suoi tormenti e più osceno lo spettacolo della sua morte.
MA (e è un ma di non poco conto) 1) E. sa che l’oracolo della P. è stato solo un gioco e non la volontà di Febo; come dobbiamo interpretare questa situazione? Forse per E. non fa differenza perché non c’è nessun atto veramente libero, ma tutto ciò che accade è inscritto in una catena inesorabile che comprende anche ciò che soggettivamente vorrebbe essere puro arbitrio? Oppure E. sa ciò che la stessa Pizia ignora, e cioè che in realtà la sua bocca ha veramente pronunciato l’oracolo del dio? 2)inconsciamente (?) E. sbaglia il proprio bersaglio (secondo la versione di Giocasta e di Sfinge che vedremo tra un attimo) non è Laio suo padre e non è neppure Giocasta sua madre. Eppure, anche con questo errore soggettivo il suo destino si compie lo stesso. E se il suo odio e la sua vendetta si rivolgono verso oggetti immaginari (trafigge con gusto Laio e gode con astio nell’accoppiarsi con la madre Giocasta, “le piantai quattro figli nella pancia… e ogni volta che montavo mia madre il mio odio (per gli dei) diventava più grande”, nondimeno egli compie davvero quelle azioni con i suoi veri genitori.
Edipo dunque continua a soffrire del complesso edipico: il suo rapporto con i genitori (siano essi L. e G. o l’ufficiale di guardia e la Sfinge) e con gli dei (immagine potenziata dei genitori) continua ad essere ambivalente: essi lo attraggono con la forza della loro potenza inderogabile che bisogna adempiere nella sua feroce crudeltà (tipica posizione sadomasochista nei confronti del potere come fonte allo stesso tempo di forza che punisce e protegge, come ha sostenuto Fromm di Fuga dalla libertà) e odio per la loro insensibilità (Laio e g. lo hanno abbandonato, così come lo aveva Febo ad una esistenza di dolore insensato).
In questa fase la P. appare sempre più come un testimone impotente, una povera donna sola e sbalestrata, risentita e idealista. Se fosse vissuta in un’altra epoca sarebbe stata una perfetta strega da mandare al rogo!
E) compare l’ombra di Giocasta. Anche lei sa tutto (ancora prima delle nozze con E. ha intuito che quello era suo figlio). Dice che E. era ingenuo perché pensava di essersi sottratto al decreto degli dei (quindi in realtà ingenua è Giocasta, perché E. l’ha ingannata). Però non gli ha detto di sapere chi fosse, né che L. fosse suo padre ) e come poteva, visto che era un omosessuale ? – ennesima versione riguardo a L. – . poi sapremo che addirittura era stato evirato (forse!) Giocasta dice che il vero padre di E. è Mnesippo (dopo Laio, Polito, l’ufficiale di guardia, il quarto padre per il povero E.!). anche Mnesippo è stato ucciso da E. (manco a dirlo) perché questi voleva impedirgli di entrare nel letto di Giocasta – parricidio plasticamente edipico!)
Giocasta è entusiasta, sprizza di piacere per l’unione con E. Ama il figlio ed è convinta che il figlio la riami (povera donna! E. la odia). È anche felice di essere stata impiccata – svela che non è vera la versione del suo suicidio – perché in questo modo ha adempiuto al decreto divino. A questo punto Pizia va su tutte le furie e insulta G.: “carogna! Sai benissimo che quell’oracolo è tutto un imbroglio inventato da me di sana pianta”. Non può sopportare che l’inganno continui, che sfacciatamente si continui ad usare il suo miserabile gioco per giustificare le menzogne più spudorate.
F) a questo punto entra in scena Tiresia. Anche lui sta morendo e vuole compiere il passaggio all’Ade con la P. Lei si accorge che lui non è affatto cieco Tiresia dice che l’unica cosa che rende sopportabile il presente è l’ignoranza del futuro, e invece gli uomini non fanno che cercare di sapere. Qui c’è un totale rovesciamento del rapporto del greco con la conoscenza. Come scrive Giorgio Colli ne La nascita della filosofia, “Delfi fu un’immagine unificante, un’abbreviazione della Grecia stessa” perché sta ad indicare che “la conoscenza fu, per i greci, il massimo valore della vita. Altri popoli conobbero, esaltarono il valore della divinazione, ma nessun popolo (come i greci) la innalzò a simbolo decisivo” (p. 16). Qui invece T. considera la conoscenza un male assurdo poi conferma il racconto di Meneceo. Ma con una variante: Tiresia ha effettivamente confezionato l’oracolo per Laio (quello che lo avvertiva di un figlio parricida, che peraltro Laio non avrebbe mai potuto avere) perché voleva mettere in disgrazia Creonte e impedire la sua successione al trono. Cioè l’esatto contrario di ciò che voleva il povero Meneceo. Perché? Perché T. è un democratico razionalista (un illuminista, potremmo dire) consapevole della decadenza della tradizione, vuole scongiurare la dittatura di Creonte: “che Creonte sia fedele te lo concedo, (…) ma tu non scordare che non c’è dittatura senza fedeltà, la fedeltà è la solida roccia sulla quale si erige lo stato totalitario”.
Con l’oracolo T. vuole indurre L. ad adottare Anfitrione (un generale capace e amabile). Come king maker T. è una frana, perché Laio si comporta in tutt’altro modo. A questo punto T. racconta alla P. la vera storia della Sfinge: una donna bellissima figlia di Laio (proprio lui!) e Ippodamia. Costei era moglie di Pelope, il quale per vendicarsi di Laio lo evira! E Ippodamia consacra la figlia a Hermes. Perché però Sfinge tenesse il padre e la città sotto la sua minaccia Tiresia non lo sa.
A questo punto P. e T. incominciano a riflettere: la storia della Sfinge è irrilevante sostiene P. ma T. replica “non esistono storie irrilevanti. Tutto è connesso con tutto dovunque si cambi qualcosa il cambiamento riguarda il tutto”. La realtà è quindi un caleidoscopio in cui ogni azione influenza tutto il resto e non vi è nulla di casuale. Tiresia spiega anche il perché del secondo oracolo: se Creonte avesse saputo che E. aveva ucciso il padre e sposato la madre divenendo re di Tebe, avrebbe cacciato E. dal trono e avrebbe instaurato un regime totalitario sul modello spartano (da cui si evince che per T la libertà è garantita solo da un certo grado di vizio, perché la perfezione (quella di Creonte) genera oppressione e dittatura. Oggi le cose forse stanno diversamente e un regime autoritario si può concepire meglio all’ombra della complicità nel vizio e nella mediocrità. O no? Fatto sta che anche questa volta T. fallisce, perché, a suo dire, G. gli aveva nascosto che fosse stato proprio E. a uccidere Laio.
L’amara conclusione di Tiresia: “ora Creonte sta edificando il suo stato totalitario. Quello che volevo evitare è accaduto”. Ecco un altro che per evitare un evento temuto gli finisce in bocca e collabora alla sua realizzazione. D’altra parte – e fa specie che T. che aveva iniziato maledicendo la conoscenza e dichiarato che la realtà è soggetta ad una variazione infinita di rapporti che ne modifica continuamente il divenire non ne abbia tenuto conto - la realtà è così complessa, è un’equazione con infinite incognite, che è illusorio poterla padroneggiare e dirigere a nostro piacimento. Ognuno sa solo qualcosa , e ogni sua azione – per definizione cieca, almeno in parte – cambia il quadro, che non può essere mai ricomposto, nemmeno (o forse soprattutto) a posteriori. In questo senso T. ci riappare molto più greco di quello che lui stesso voleva sembrare inizialmente, quando denigrava la conoscenza, poiché anche lui mostra la stessa fiducia forsennata nella capacità dell’agire umano di costruire un diverso destino. Che caratterizzò i greci, a dispetto del concetto potentissimo che ebbero del destino.
G) compare a questo punto Sfinge, o meglio, compaiono le leonesse che la sbranano e la rigettano (le sue membra si ricompongono con il peplo trasparente che ne copre e scopre il corpo bellissimo). Il supplizio è destinato a riprodursi in eterno e in ciò la sfinge di Durrenmatt ricorda la novella di Nastagio degli Onesti di Boccaccio)
La Sf. rivela che Laio non era ciò che sembrava e che T. credeva: era anche lui un tiranno perfido e superstizioso” ma la sua tirannia era sopportabile perché non si ispirava a ideali di giustizia. (p.53) Laio era un despota felice di esserlo, ma non accettava che essendo evirato con lui finisse la stirpe di Cadmo. Un giorno fece violentare la Sfinge dal suo ufficiale di Guardia (si chiamava Polifonie e così sappiamo il nome dell’ennesimo padre di Edipo) Nello stesso periodo G. partorì il figlio avuto dall’altro soldato, Mnesippo. Ovviamente Sf. ignorava lo stupido oracolo che T. aveva formulato. Laio perciò pensa di liberarsi di entrambi i bambini. Un giorno Sf. si vede arrivare un pastore che gli porta il figlio di G. e Mnesippo con i calcagni forati (potremmo chiamarlo Edipo 1) con l’ordine di Laio di farlo sbranare dalle leonesse insieme al figlio di Sf. e Polifonte. Ma Giocasta aveva corrotto il pastore perché consegnasse il suo bambino a Polibo, badando a non rivelargli la sua origine. Con uno stratagemma Sf. riesce a carpire questo segreto al pastore e quindi getta Edipo 1 alle belve, poi trafigge i calcagni a suo figlio e lo consegna al pastore. Così il figlio di Sf. e Polifonie diventa Edipo (2). Laio sospetta ma non può estorcere la confessione a Sfinge perché le leonesse la difendono. Quando Edipo 2 incontra Laio uccide in realtà suo padre (l’ufficiale di guardia Polifonte) e suo nonno (Laio). Delitto edipico elevato alla potenza si potrebbe dire. Poi, arrivato a Tebe, scioglie l’enigma della Sfinge, ma anziché ucciderla ne diventa l’amante, realizzando così l’oracolo della povera P., che con il suo scherzo non ha scampo in nessuna delle contraddittorie versioni. In ognuna di esse si realizza ciò che lei aveva profetato per dispetto.
Qui si conclude la teoria delle apparizioni. E prima di concludere leggendo il discorso con il quale T. chiude il racconto riproponendo il carattere enigmatico del mondo e l’ambiguità degli sforzi umani di interpretarlo, vorrei però avanzare un’ipotesi che forse è ignota alo stesso Durrenmatt. La mia ipotesi è che vi sia un ultimo personaggio che non è mai apparso in primo piano, ma che secondo la sensibilità greca – in questo senso quindi non di Durrenmatt – è il vero artefice di tutto: costui è Apollo il luminoso. Noi siamo partiti dalla affermazione, l’unica mai messa in discussione, che P. abbia profetato per capriccio. Ma siamo sicuri che sia così? Nella tradizionale rappresentazione della profetazione delfica e nella natura di Apollo vi sono alcuni indizi che potrebbero metterci su un'altra strada. Eraclito, infatti, dice di Febo: la Sibilla con bocca folle dice attraverso il dio cose senza riso, né ornamento, né unguento.” E la follia (la Mania di cui parla Platone nel Fedro) la condizione che rende possibile la profetazione oracolare. E chi ci dice che la pazzerella P. non fosse posseduta dal dio proprio quando, presa da quel malumore, le saltò quel ghiribizzo? In un altro passo del Timeo Platone scrive infatti: vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.” E non è un caso, forse, che solo nell’agonia della morte, quando la malattia della vita raggiunge il suo culmine, che la P. può avere una visione completa della assurdità del reale. Perché Apollo avrebbe però nascosto la sua azione e anziché agire direttamente avrebbe diretto da lontano, sfruttando i vizi e le presunzioni umane? Ciò si spiega con la natura di Febo, che viene spesso definito “colui che agisce da lontano. “L’attributo del dio, l’arco arma asiatica, allude ad un’azione indiretta, mediata, differita. Qui si tocca l’aspetto della crudeltà (…) la distruzione, la violenza differita è tipica di Apollo. Non a caso l’etimologia stessa dl su nome ha questo senso derivando dal verbo apollumi (απολλύμι), che vuol dire appunto distruggo. Apollo può essere inteso come distruttore, sterminatore, colui che distrugge totalmente. E infatti potremmo dire , il racconto si chiude con queste parole: “la Pizia non rispose, tutt’a un tratto non c’era più e anche Tiresia era scomparso e con lui il plumbeo mattino che gravava su Delfi, la quale pure si era inabissata.” Uno spettacolo di distruzione totale,dunque, degno di Apollo il distruttore.
In un passo di Pindaro le parole profetiche di Apollo sono paragonate alle frecce del suo arco che si rivolgono contro il mondo umano “attraverso il tessuto delle parole e dei pensieri”. (Colli) Apollo è un dio ambiguo come il suo simbolo, il cui nome in greco ha lo stesso suono del nome vita. Bìos e bìòs sono nello stesso momento la vita e la morte, la vita e l’arco che dà la morte. In questo senso Apollo non è che la metafora della duplice natura del vivente che è una forza ebbra che genera distruggendo e generando distrugge. Il frammento arcinoto di Anassimandro ce lo conferma: “ da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità” ecco allora ciò che il dio ci dice è che la vita è questo labirinto in cui siamo gettati, come dice Platone nell’Eutidemo. Il questo caos, l’uomo cerca faticosamente di trovare il filo del senso, di costruire delle isole d’ordine nel mare dell’entropia dilagante. In questo sforzo di dare un senso all’enigma, di portare ordine nel caos, razionalità dove regna solo il caso, l’uomo sarà sempre sconfitto. Anzi i suoi stessi sforzi saranno il piedistallo su cui si solleverà l’astuzia della vita e del destino, come potremmo dire parafrasando Hegel. Ma questa è anche la loro unica possibilità e dignità, come ciechi orientarsi nel buio con il loro umanissimo métron. Anche questo, infatti, dice Apollo quando mostra il suo lato benevolo, quando cioè non parla con parole indistinte, “bensì con precetti come ‘ nulla di troppo ’ oppure ‘conosci te stesso ’. Il dio accenna all’uomo che la sfera divina è sconfinata, insondabile, capricciosa, folle priva di necessità, tracotante, ma la manifestazione di essa nella sfera umana suona come un’imperiosa norma di moderazione, di controllo di limite, di ragionevolezza, di necessità.”
giovedì 29 ottobre 2009
LE MALENTENDU
Le Malentendu è il dramma della incomunicabilità, è stato detto. E questa affermazione è indubbiamente corretta. Ma, allora, è necessario domandarsi anche: chi non riesce a comunicare? Che cosa viene mal-comunicato, mal-inteso? E, soprattutto, perché?
La concatenazione tragica degli avvenimenti rappresentati nel dramma (peraltro ispirati ad un fatto di cronaca realmente accaduto) sembrerebbe autorizzare una risposta abbastanza scontata a tutti e tre i quesiti: un giovane uomo torna alla sua famiglia (composta da una madre e una sorella) che aveva abbandonato venti anni prima. Vuole risarcire le due donne dei sacrifici che hanno dovuto sopportare in tutti quegli anni anche a causa del suo abbandono. Anziché rivelare immediatamente la sua identità, si presenta al loro albergo come un ospite occasionale, confidando che l'affetto susciterà in loro il suo ricordo. Ma in tutti quegli anni le donne si sono date al crimine: uccidono i viaggiatori solitari che albergano presso di loro per rapinarli. Nonostante i tentativi che il giovane compie per indurre nella madre e nella sorella il suo ricordo, esse non lo riconoscono e lo uccidono. Soltanto dopo, accidentalmente, scoprono la vera identità della loro vittima. La madre, sopraffatta dal rimorso, si suicida. La sorella, dopo un aspro scontro con la cognata che è venuta a cercare il marito scomparso, si toglie anch'essa la vita.
Dunque, si direbbe che tutto sia chiaro: a non comunicare, dando vita al tragico malinteso a cui Martha (la sorella) attribuisce la morte di Jan (il fratello) [ vedi atto III, scena III: Maria: “sa mère et sa soere étaient donc des criminelles?” Martha: “Oui.” Maria: “Aviez-vous appris déjà qu'il étatit votre frère?” Martha: “si vous voulez le savoir, il y a eu malentendu.” ] sono le donne e gli uomini protagonisti di questo dramma claustrofobico. La causa della mancata o difettosa comunicazione è il proposito del figlio di tacere la sua identità, nonché i diversi intenti con cui ciascuno parla e ascolta. E il malinteso altro non è che l'identità di Jan, scambiato per un estraneo.
E tuttavia, troppi indizi nel testo, oltre al carattere complessivo dell'opera di Camus e le sue ascendenze esistenzialiste, segnalano la presenza di una chiave di lettura diversa e più profonda, tale da conferire a questo dramma un carattere per così dire “metafisico”.
Proviamo ad elencare questi indizi per poi analizzarli separatamente.
1.Il primo elemento che conviene considerare è costituto proprio dal tormento esistenziale che caratterizza tutti i personaggi – con le uniche eccezioni della Moglie (Maria) e del vecchio servitore, su cui torneremo più avanti –. La Madre, Jan e Martha, infatti, sono scossi da un tormento interiore non riducibile ai rimorsi o alle ansie generate dalle rispettive condotte. Jan, ad esempio, nel suo proposito di ritornare alla sua famiglia per ritrovare i suoi affetti è accompagnato da un sentimento cupo dell'esistere, che in parte, forse, è all'origine della sua strana scelta di non rivelare la propria identità. Questo stato d'animo si manifesta clamorosamente nelle scene II e III, del II atto. Tra le tante, mi limiterò a riportare le affermazioni più significative del dramma interiore di Jan: “Si, è in questa stanza che tutto sarà definito (…) com'è fredda, però! Non riconosco più nulla, è stato rimesso tutto a nuovo. Ora sembra una di quelle camere d'albergo di città straniere dove ogni notte giungono uomini soli. Ho conosciuto anche quelle. Allora mi sembrava che ci fosse da trovare una risposta. Forse la saprò qui. (guarda fuori) Il cielo si copre. Ed ecco di nuovo la mia vecchia angoscia qui, nel cavo del mio corpo , come una vecchia ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna, il timore che la risposta non venga. E chi risponderebbe in una camera d'albergo?” (Si è diretto verso il campanello. Esita e poi suona. Non si sente alcun rumore. Un attimo di silenzio, dei passi. Bussano. La porta si apre. Nel riquadro appare il vecchio domestico. Resta immobile e silenzioso). Jan: “Non è niente. Mi scusi. Volevo soltanto vedere se qualcuno rispondeva e se la suoneria funzionava.” (Il vecchio lo guarda e poi chiude la porta. I passi si allontanano) SCENA III Jan: “ La suoneria funziona, ma lui non parla. Non dà una risposta.” (Guarda il cielo. Che fare? Battono dei colpi. Entra la sorella con un vassoio) [corsivi miei]
Quale significato dobbiamo attribuire a queste parole di Jan? Che cos'è, in particolare, la solitudine eterna di cui parla? Qual è la risposta che Jan cerca e attende? Chi deve darla?
È sufficiente per il momento annotare che questo tono, perfino enfatico in certi punti, non può che indicare una condizione esistenziale ben più angosciata e straziata nella sua radicalità di quello che potrebbe essere lo stato d'animo di un figlio che, tornato alla casa dei suoi familiari, tarda ad essere riconosciuto. Vi è dell'altro, come d'altra parte dice chiaramente quell'aggettivo, eterna, che qualifica in modo irrefutabile la condizione di solitudine di Jan.
2.Anche Martha è scossa da un'ansia oscura e tremenda ad un tempo. Martha è forse il personaggio più complesso e importante del dramma, quello nel quale per certi versi si anticipano i tratti del ribelle Sisifo, a cui Camus affiderà in un'opera successiva il ruolo del rappresentante dell'umanità che si rivolta contro la propria condizione. Determinata fino alla ferocia nella sua condotta delittuosa con la quale vuole ottenere la propria liberazione, Martha ha pochi momenti di abbandono e tenerezza. Per il resto è furiosa e astiosa: vuole con tutte le sue forze fuggire dalla propria triste condizione, rappresentata dall'orizzonte chiuso e claustrofobico della terra in cui è condannata a vivere e scatena la sua rabbia contro tutti coloro che implicitamente o esplicitamente le ricordano e le rinfacciano con la loro “umanità” ciò che lei è diventata. Perché in quella bontà così ingenuamente esibita ella vede il riflesso stravolto e rovesciato del volto crudele che ha dovuto fare suo e, nello stesso tempo, la minaccia più insidiosa al suo sogno di fuga e di salvezza. Ella sa infatti che se rispondesse al richiamo del cuore, se cedesse ai sentimenti di umanità e compassione, non potrebbe più mettere in atto il suo proposito, sarebbe condannata alla rinuncia e alla sottomissione. Per questo si scaglia con violenza contro la madre quando questa esita di fronte all'ennesimo crimine che devono compiere. Per questo insulta e respinge con disprezzo il dolore disperato della cognata e maledice sua madre e suo fratello che nella morte hanno ritrovato quell'abbraccio e quelle carezze che lei non ha avuto e che comunque rifiuta con disgusto (atto III, scena III). Si uccide: anima ribelle, e non riconciliata, rifiuta con questo gesto la resa che la sconfitta vuole imporle. Ma è soprattutto nella scena I dell'atto II che il personaggio di Martha rivela il suo tormento, in uno dei rari di sincerità e confidenza, a cui significativamente segue però, spietata e implacabile, la decisione di uccidere l'ospite ignoto. A Jan, infatti, è fatale la forza suggestiva delle sue stesse parole, che, descrivendo “la terra dalle spiagge deserte” da cui proviene, fanno rivivere il sogno che Martha insegue e, al tempo stesso, evocano quei sentimenti di umanità e di commozione che sono il principale ostacolo alla sua realizzazione. Così esse risvegliano in lei la coscienza del pericolo che corre nel momento in cui esita a mettere in atto il suo disegno, insieme alla forza selvaggia del desiderio, che potrà realizzarsi solo se ella saprà perseverare nel suo crimine spietato. [Atto II, scena I] Jan: “ La capisco. La primavera laggiù prende alla gola, i fiori sbocciano a migliaia sui muri bianchi. Se lei camminasse per un'ora sulle colline che circondano la mia città, raccoglierebbe nelle vesti l'odore di miele delle rose gialle.” (Martha si siede) Martha: “E' stupendo. Quel che noi chiamiamo primavera qui sono una rosa e due germogli che sbocciano nel giardino del chiostro. (con disprezzo) Eppure basta a turbare gli uomini del mio paese. Un soffio più potente li farebbe arrossire. Hanno la primavera che si meritano.” Jan: “ Lei non è serena. Voi avete anche l'autunno.” Martha: “Che cos'è l'autunno?” Jan: “Una seconda primavera. Tutte le foglie sono fiori. (la guarda con insistenza) Forse capirebbe così anche le anime. Lei le vedrebbe fiorire, se venisse loro incontro, se fosse paziente.” Queste parole di Jan suonano all'orecchio di Martha come un inopportuno invito a trovare la bellezza nell'autunno della vita, a rassegnarsi ai rari ed esangui fiori di quella terra inospitale, a rinunciare al suo desiderio. Martha, infatti, abbandona il tono sognante e risponde con durezza: “non ho più pazienza per questa Europa”. Ma è quando Jan le fa osservare che per la prima volta si sono parlati con toni umani, che Martha avverte il vertiginoso rischio in cui si trova e reagisce ribadendo la sua determinazione: Jan “... mi sembra che, per la prima volta, voi vi siate rivolta a me con un linguaggio umano.” Martha (con violenza) “Lei si sbaglia, mi creda. E, se anche fosse così, non avrebbe nessuna ragione per rallegrarsene. La mia umanità non è quanto ho di meglio. Ciò che ho di umano è ciò che desidero, e per ottenere ciò che desidero, credo che travolgerei tutto sul mio cammino.” E poco dopo confessa che era venuta a parlargli con l'intenzione di invitarlo a partire (a salvarlo), ma l'appello che egli aveva fatto a ciò che essa ha di umano le avevano fatto mutare proposito. È l'annuncio, con parole irridenti, della decisione definitiva di ucciderlo. Riepiloghiamo dunque i dati emersi: Martha vuole disperatamente fuggire, cerca una via di salvezza (non uso questa parola in modo abusivo, come dimostrano decisivi riscontri nel testo) da una condizione intollerabile. Domandiamoci: che cos'è questa terra da cui vuole scappare a tutti i costi? E che cos'è quell'altra a cui anela, in cui, invece, si può “fuggire, liberarsi, stringere il proprio corpo ad un altro, mescolarsi alle onde … quel paese difeso dal mare dove gli dei non giungono”? Mi sembra evidente che qui Camus accenni, in modo metaforico, alla contrapposizione tra la effettualità dell'esistenza umana e l'aspirazione ad una condizione sgravata dal peso del dolore e della solitudine. Martha anela ad una forma di trascendenza terrena (là “dove gli dei non giungono”), ad una terra promessa di felicità e libertà. Se, possiamo dirlo anticipando qui alcune conclusioni, mentre Jan pone una domanda di senso all'esistenza, Martha vuole una via di salvezza dal dolore della vita (si tratta in realtà di due domande molto simili, come vedremo più avanti. Martha cerca la sua salvezza rivoltandosi contro la vita stessa, se è vero, come lei stessa dice (atto III, scena VIII) che il mondo non è fatto per l'uomo, ma è fatto solo perché ci si muoia. Campione di quella umanità eroica e disperata, destinata alla sconfitta e indomita che Camus celebrerà nel mito di Sisifo, Martha si rivolta contro la vita in nome (e qui emerge la contraddizione che la dilania) di una brama di vita e di felicità che è tanto più furiosa quanto più è disperata.
3.La Madre, infine, è Natura. Tutto in lei accenna alla visceralità delle forze vitali che generano e distruggono ad un tempo. Lei è il seno in cui tutto nasce e muore: i desideri, i sogni, i dolori, i sentimenti, i figli. Anche lei coltiva (sarebbe più corretto dire che coltivava) un progetto di fuga, assieme alla figlia. Ma per ragioni opposte: la figlia vuole una vita più degna e piena, lei vuole il riposo e l'oblio. In uno dei dialoghi decisivi, la Madre implora la figlia di non uccidere l'ospite. Così forse potremo salvarci, le dice. E la figlia rifiuta di usare la parola salvezza: “tutto ciò che possiamo sperare di ottenere è, lavorando questa sera, di poter dormire in seguito.” E la Madre risponde: “Ciò che io chiamo salvarsi: dormire.” Anche la Madre è oppressa da un'angoscia esistenziale, che si identifica con la forza vitale che si spegne, che si esaurisce: “il cuore si consuma, signore.” Il suo disorientamento esistenziale è espresso dalle stanchezza delle membra, dall'esaurimento di quel grembo che ha contenuto tutti gli spasimi della vita e della morte e che ora è esausto e non anela ad altro che al riposo. Se la Figlia ama selvaggiamente la vita ed è scossa da un desiderio violento di liberazione e di salvezza dal dolore e dalla solitudine, la madre è invece la personificazione della forza vitale che si rattrappisce, si ripiega, tende all'immobilità della morte. Priva di complicazioni intellettuali, essa è tutta nella fisicità del suo corpo vivente, nel contatto con gli altri corpi. Come quando ritrova il figlio nell'abbraccio e nelle carezze della morte, in fondo al fiume, quell'abbraccio e quelle carezze evocati e maledetti da Martha (“Je les laisse à leur tendresse retrouvée, a leur caresses obscures”).
4.Un altro importante indizio dell'esistenza di un piano”metafisico” nel Malentendu è costituito dalla figura del vecchio servitore. È stato giustamente osservato che il servitore rappresenta con ogni probabilità Dio. Le ragioni di questa supposizione sono troppo numerose ed evidenti perché sia necessario dilungarsi in una dettagliata dimostrazione. Mi convince meno, invece, l'ipotesi che il servitore sarebbe la personificazione del destino. A meno che non si intenda identificare Dio con il fato e il fato con Dio, cioè con la necessità inderogabile con cui, in ultima istanza, si identifica la realtà stessa di tutte le cose, nonché i loro rapporti. Ma su questo tornerò più avanti. Resta comunque acquisita la presenza di Dio sulla scena, e con essa la conferma che il testo richieda uno sforzo di analisi di tipo speculativo e che il suo oggetto, l'impossibilità di comunicare e l'ineluttabilità del “malinteso”, vada riferito ad un piano più profondo e decisivo rispetto a quello, tutto sommato banale, della meccanica degli equivoci e delle incomprensioni domestiche.
5.Si ripropongono, dunque, i quesiti iniziali: “Chi non comunica? Che cosa viene mal-comunicato/mal-inteso? E, soprattutto, perché?
Iniziamo a esaminare il primo: chi non comunica? ovvero chi malintende, chi è malinteso? Nella scena V del I atto Jan, dopo aver incontrato il vecchio servitore che è entrato e uscito dalla scena senza rispondere, rivolge la seguente domanda a Martha che è venuta a riceverlo: “Est-il muet?” Martha: “C'est nes pas cela.” Jan: “il parle donc?” Martha: “le moins possible et seulement pour l'essentiel.” Jan: “En tout cas, il n'a pas l'air d'entendre ce qu'on lui dit.” Martha: On ne peut pas dire qu'il n'entendre pas. C'est seulement qu'il entend mal.” (corsivo mio) Appunto, intende male! Poiché esistono vari sinonimi del verbo entendre (uno di essi è ouir, udire) sarebbe ingenuo credere che la scelta di Camus sia casuale. Dunque il vecchio servitore (Dio) è colui che malintende. Anzi, egli viene qualificato come tale fin dall'inizio del dramma, prima che la catena dei malintesi si dispieghi. Tutto ciò conferisce al vecchio servitore questa caratteristica in modo potremmo dire eminente rispetto agli altri personaggi, per cui non è avventato dire che egli è il malintenditore per eccellenza. Inoltre, gli altri personaggi parlano e rispondo, e quindi, come vedremo, malintendono e sono malintesi. Dio è l'unico personaggio invece a non parlare (quando lo farà, la sua risposta non ammetterà repliche e su di essa calerà definitivamente il sipario) e quindi è l'unico a non essere malinteso, ma il solo ad essere esclusivamente malintendente.
Questa singolarità del servitore-Dio esige nuove domande: perché dio non sente (o forse non ascolta, o meglio ancora fraintende?) È un dio difettoso? O indifferente? Sono le creature che non sanno comunicare con lui? O sono le domande ad essere poste in modo sbagliato?
Che non senta è escluso. E non solo perché ce lo dice Martha (On ne peut pas dire qu'il n'entendre pas.), ma anche perché in altre circostanze mostra di sentire (atto II, scena II; atto III, scena IV). In entrambi i casi il vecchio servitore dimostra di sentire. E in entrambi i casi la sua condotta è, implicitamente o esplicitamente, una negazione. In entrambi i casi le due creature che lo in-vocano/con-vocano implorano l'aiuto divino. Ciò naturalmente conferma l'identità del vecchio servo. Ma dimostra anche che invocare Dio è inutile, egli appare ma non interviene, o peggio ancora oppone un esplicito rifiuto, quel “no” che non ammette repliche, che sancisce definitamente che non è possibile nessuna comunicazione tra Dio e le creature. Che il rifiuto esplicito venga opposto con gelida indifferenza proprio alla creatura più innocente – alla sposa che non ha commesso alcuna ingiustizia e che ha soltanto vissuto il suo amore – non è certamente senza motivo. Come pure forse non è un caso che ella si chiami Maria. Forse Camus ha voluto sottolineare, con questa chiamata in causa del simbolo cattolico dell'intercessione efficace e della purezza da ogni colpa, l'impossibilità di qualsiasi illusione al riguardo. Ma forse si tratta soltanto di una coincidenza. Sta di fatto che nessuno, tanto meno gli innocenti, possono attendersi pietà. La loro invocazione verrà respinta, senza acrimonia, senza eccessi, con gelida freddezza: “no.”
D'altra parte il vecchio servitore appare sempre senza mostrare alcuna partecipazione un testimone silenzioso ed enigmatico. Ma anche un operatore che, apparentemente privo di una volontà propria, si limita ad assecondare lo svolgersi degli eventi, collaborando con le creature alla realizzazione dei loro scopi. Un servitore, appunto. E, paradossalmente, si comporta così anche quando – anzi, soprattutto quando – compie un'omissione. Nella scena VIII del II atto, infatti, il servitore raccoglie il passaporto che è caduto a Jan mentre le due donne lo stanno trasportando a forza di braccia nel fiume. Lo raccoglie e si ritira, “senza che le donne si avvedano”. Qual è il significato di questo gesto? L'unica spiegazione coerente è che Dio ha sapienza del mondo, ma la cela alle sue creature, affinché esse, cieche, adempiano il destino di dolore e crudeltà che costituisce la verità dell'esistenza. Solo quando tutto sarà irreparabilmente compiuto, egli tornerà per mostrare ciò che aveva nascosto. Dio, quindi, non è il servitore delle creature ( ad esse non risponde) ma il servitore dell'ordine inderogabile e crudele ( quell'ordine che Martha appunto contempla finalmente restaurato alla fine del dramma: “Perché solo adesso tutto è in ordine. Se ne persuada.” Maria: “quale ordine?” Martha: “Quello in cui nessuno è mai riconosciuto.” (atto III, scena III).
Dunque, concludendo questa parte, Dio è il malintenditore e gli uomini sono i malintesi. A loro volta, gli uomini non si riconoscono (Martha) e questo è l'ordine inderogabile che regge il mondo.
6.Ma che cosa è malinteso? Qual è la domanda che non viene capita? O le domande? Il malinteso, è chiaro, riguarda anche le domande che gli uomini si pongono reciprocamente. Ma sono le stesse che pongono a Dio? In un certo senso si potrebbe rispondere a questa domanda sia in modo affermativo che in modo negativo. In un certo senso, infatti, si tratta delle stesse domande, perché ciò che i protagonisti umani si scambiano reciprocamente sono richieste d'aiuto e di senso.
Solo Jan e Maria rivolgono direttamente a Dio una domanda. Il primo cerca la risposta alla paura della solitudine eterna: la sua è quindi una domanda di senso. La seconda chiede aiuto. Cioè chiede anch'essa un senso al dolore. La risposta è entrambi i casi negativa. Camus, anche qui anticipando le posizioni che esprimerà in Il mito di Sisifo e in L'uomo in rivolta, ci dice che la ricerca di salvezza nella fede è destinata al fallimento. Come pure è senza speranza la salvezza che Martha cerca nella rivolta. Ma salvezza da che cosa? Dalla vita, ovviamente; dall'assurdità della vita.
L'etimologia della parola “assurdo” rinvia ad un suono che viene allontanato perché sgradito all'orecchio (“che suona male, ingrato all'orecchio, detto di voce, di suono”). La vita è qualificata come assurda, cioè come non udibile, sgradevole a chi l'ascolta. Qualcosa cioè che si mal-intende. E quindi che non si fa capire. Che non si può capire. La sua verità, se ne ha una, risulta incomprensibile, incomunicabile, perché ripugna a chi la deve ascoltare, intendere. Questa vita, che si fatica ad accettare (da accipere, ricevere), perché si presenta sgradevole, si mal-intende, suscita in Jan (e in Martha e in sua madre) il desiderio di salvezza (trovare un'altra terra) e di senso (la risposta che Jan cerca). La risposta a che cosa? La risposta alla domanda di Jan. Ma qual è questa domanda? In realtà noi non la conosciamo, perché in nessun momento del dramma Jan la formula esplicitamente. Infatti, egli accenna soltanto a una risposta da trovare, o a una risposta che non viene. Ma non dice mai quale sia la domanda. Allora dobbiamo cercare di capirlo interpretando questi accenni e inserendoli nel loro contesto.
Jan è solo nella sua stanza e inizia a parlare con stesso, osservando per prima cosa il luogo in cui si trova e che gli dovrebbe essere familiare, mentre gli appare freddo e estraneo: “Allora [quando anche lui frequentava camere d'albergo anonime dove ogni notte giungono uomini soli] mi sembrava che ci fosse da trovare una risposta.” e subito soggiunge dubbioso: Forse la troverò qui.” La risposta a quale domanda? Non lo sappiamo e Jan non lo dice. Però sappiamo che Jan è solo in una camera d'albergo che gli sembra simile a tante altre nelle quali ha soggiornato in passato. La risposta che Jan sente di dover cercare sembra quindi scaturire dalla condizione di chi è solo in un luogo straniero. Ma, riflettiamo ancora un istante, in che senso Jan è solo? Egli non è uno di quegli uomini soli che giungono di notte in un albergo. È sposato con una donna che lo adora e lo attende trepidante poco lontano da lì. Se ora sono separati è solo perché lui ha voluto così, costringendo Maria ad andarsene contro la sua volontà. In ogni momento potrebbe decidere di porre fine a quella commedia e tornare da lei. E ritroverebbe nelle sue braccia tutto il suo amore. Dunque la sua solitudine attuale è solo temporanea e per di più volontaria. Non può essere questa solitudine a generare un bisogno così antico e angosciante di una risposta. A meno che questa solitudine quotidiana sia la metafora di una condizione ben più profonda. La conferma di ciò la troviamo nelle parole con cui Jan prosegue il suo soliloquio: “Il cielo si copre. E ecco di nuovo la mia vecchia angoscia qui, nel cavo del mio corpo, come una vecchia ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna. Che la risposta non venga.” dunque Jan porta in sé un'angoscia antica, che è divenuta una pena nascosta (nel cavo del mio corpo, una vecchia ferita che ogni movimento irrita). E questa angoscia, e questo dolore assiduo hanno un nome: solitudine eterna. Ovvero, mancanza della risposta (che la risposta non venga). In altre parole, la solitudine eterna coincide con la mancanza di quella risposta, e, dunque, possiamo dire che è la mancanza della risposta che genera quella solitudine eterna. Che cosa ci sta dicendo Jan? Certo, ci dice che la solitudine che lo affligge (ma lo avevamo capito già) non è la banale condizione di chi per un certo tempo non è in compagnia di qualcuno. La solitudine che lo assilla, infatti, è eterna. Ma in che senso Jan può essere minacciato dalla solitudine eterna? E cosa dobbiamo intendere quando Jan dice che la solitudine eterna è la mancanza della risposta?
7.Vi è solo un modo per dare un senso a queste parole, ed è quello di riferirle al piano della trascendenza, o meglio, della sua impossibilità. L'angoscia di Jan, infatti, altro non è che il timore che l'esistenza altro non sia che un effimero episodio nell'eterno fluire delle cose, un insignificante evento compreso tra il Nulla infinito che lo precede (e dal quale pro-cede) e il Nulla infinito che lo attende per inghiottirlo in sé, senza che ne resti traccia. O, che è lo stesso, che l'esistenza non sia altro che una delle infinite configurazioni dell'Essere, destinate ad essere cancellate per lasciare il posto ad altre, a loro volta destinate a sparire in un avvicendamento infinito dove solo il nascere e il perire si conserva. Questa è la solitudine eterna che angoscia Jan e che provoca in lui quella ricerca di una risposta che altro non è, in realtà, che l'invocazione disperata di senso (e quindi di salvezza) della coscienza umana posta di fronte alla realtà del proprio annientamento. Essa potrebbe suonare pressappoco così: “l'esistenza ha un senso “altro” rispetto al crudele destino che sembra governare tutte le cose, le quali, venendo alla vita, sono perciò stesso forzate alla morte, all'annichilimento?”
Hannah Arendt sostiene che per l'uomo greco la concezione dell'immortalità nasca dall'esperienza di una natura immortale (e di dei immortali) che insieme circondano le vite degli unici esseri mortali, gli uomini. Infatti “la vita individuale si distingue da tutte le altre per il corso rettilineo del suo movimento, che, per così dire, taglia quello circolare della vita biologica. La mortalità è questo: muoversi lungo una linea retta in un universo dove ogni cosa dotata di movimento si muove in un ordine ciclico.” (Vita activa). Se hanno un fondamento le teorie della nascita e della morte (termica) dell'universo, oggi dovremmo sostituire alla visione ciclica della natura e della vita biologica una dinamica di tipo lineare (solo apparentemente simile alla traiettoria lineare della vita umana) anche nella natura. Ma anche in questo caso non verrebbe meno l'eccezionalità della condizione umana. Infatti, la mortalità rimarrebbe un muoversi lungo una linea retta, da un capo all'altro della linea, con la coscienza di questo inizio e di questa fine. Per questo gli uomini restano, anche in universo che non si muove più secondo un ordine ciclico, gli unici mortali, perché sono gli unici morituri, cioè gli unici consapevoli del loro destino. E questa è la solitudine del vivente umano. E da essa nasce l'invocazione di un senso che trascenda ciò che altrimenti appare insensato. E questa domanda non può che essere rivolta a Dio, se con Dio intendiamo ciò che dà all'essere un senso che trascende il mero esistere, nella misura in cui quell'essere, altrimenti, non ha in sé altro senso che la sua mera fattualità. Ma Dio, lo sappiamo, non risponde: “La porta si apre. Nel riquadro appare il vecchio domestico. Resta immobile e silenzioso). Jan: “Non è niente. Mi scusi. Volevo soltanto vedere se qualcuno rispondeva e se la suoneria funzionava.” (Il vecchio lo guarda e poi chiude la porta. I passi si allontanano) SCENA III Jan: “ La suoneria funziona, ma lui non parla. Non dà una risposta.”
Ma se è vero che la risposta non viene, è anche vero che neppure la domanda è formulata. Quella di Jan, infatti, è un'invocazione muta, senza parole. Come silenzioso è il suo appello alla Madre e alla Sorella, da cui spera di essere riconosciuto per la forza dell'amore e del sangue, senza dover pronunciare il suo nome, senza doversi dichiarare. Insomma, è come se per Jan l'esistere fosse di per sé già eloquente, cioè esprimesse, per il fatto stesso di consistere, quella domanda di senso e di amore. Anzi, quasi che l'esistenza della coscienza del proprio finire, realtà enigmatica e paradossale in un universo indifferente e sordo perché inconsapevole del morire e quindi immortale, non fosse altro che quella domanda assurda, cioè non udibile. In questo senso il malinteso è ineluttabile. In qualsiasi modo la domanda venga formulata non potrà mai essere intesa: chi la deve recepire, infatti, non potrà mai farlo in quanto essa è per lui priva di significato, proprio in quanto chiede un significato, si basa su un significato. In questo senso il vivente umano è condannato alla solitudine di chi parla una lingua che nessuno comprende; egli è lo straniero condannato a vivere in un mondo che non è la sua casa, ma solo il luogo dove morirà. Come dice Martha, “Questa casa non è la sua, infatti. Perché non è di nessuno. E nessuno vi potrà mai trovare calore e abbandono” il mondo è fatto “perché ci si muoia.” La casa in cui Jan, al pari di tutti gli umani, è un estraneo è l'essere, nel quale il vivente è accolto affinché, vivendo e perendo, il tutto si conservi, e il ciclo di generazione-distruzione si perpetui. L'essere è qui, intorno a noi e in noi, in ciascuno di noi viventi-morenti. È presente, ma anche assente, infinitamente lontano e inaccessibile, proprio perché così prossimo, intimo. L'esistenza umana è infatti l'essere stesso, di cui costituisce un frammento. Non c'è scarto, non c'è trascendenza e non c'è salvezza. Perché non c'è salvezza dalla vita. Non c'è salvezza alla solitudine eterna che è la vita. Jan e Martha cercano una risposta, costruiscono un progetto di fuga. Inutilmente. Perché nessuno può intendere il loro linguaggio. Essi sono i malintesi, e le loro domande di salvezza e di senso non hanno chi le ascolta. Per questo non vi è risposta. Se vi fosse una risposta l'assurdo della vita non sarebbe più tale. Ma la vita è assurda perché essa semplicemente è, e questo suo essere è fondato in sé stesso, senza un perché che lo trascenda. La vita (cioè l'essere delle cose che è presso ognuna di esse, ma anche infinitamente lontano da ciascuna nella loro individualità) non deve rendere conto del suo esistere, perché ogni domanda pretende di definire un senso dove non esiste altro senso che quello dell'essere. Le creature, quelle strane creature che sono i mortali, fanno domande che sono destinate a cadere nel vuoto perché chiedono di tracciare una direzione, un senso, là dove esistono tutti i sensi e quindi non ne esiste nessuno in particolare. E, soprattutto, non ne esiste nessuno che non sia quello del tutto. Nel senso dell'essere, infatti, sono contenuti tutti i sensi dei viventi, che non sono però i loro sensi, ma quelli dell'essere. Secondo Camus, a ciò non c'è scampo. Siamo condannati alla sconfitta.
Ma, forse, questo non è l'unico modo di vivere la condizione tragica nella quale ci troviamo. Non è necessario che la consapevolezza lucida di questa condizione si trasformi in una visione così disperata e disperante. Ma questo è un altro discorso che richiederebbe di uscire dal compito che ci siamo dati di commentare Le malentendu.
Le Malentendu è il dramma della incomunicabilità, è stato detto. E questa affermazione è indubbiamente corretta. Ma, allora, è necessario domandarsi anche: chi non riesce a comunicare? Che cosa viene mal-comunicato, mal-inteso? E, soprattutto, perché?
La concatenazione tragica degli avvenimenti rappresentati nel dramma (peraltro ispirati ad un fatto di cronaca realmente accaduto) sembrerebbe autorizzare una risposta abbastanza scontata a tutti e tre i quesiti: un giovane uomo torna alla sua famiglia (composta da una madre e una sorella) che aveva abbandonato venti anni prima. Vuole risarcire le due donne dei sacrifici che hanno dovuto sopportare in tutti quegli anni anche a causa del suo abbandono. Anziché rivelare immediatamente la sua identità, si presenta al loro albergo come un ospite occasionale, confidando che l'affetto susciterà in loro il suo ricordo. Ma in tutti quegli anni le donne si sono date al crimine: uccidono i viaggiatori solitari che albergano presso di loro per rapinarli. Nonostante i tentativi che il giovane compie per indurre nella madre e nella sorella il suo ricordo, esse non lo riconoscono e lo uccidono. Soltanto dopo, accidentalmente, scoprono la vera identità della loro vittima. La madre, sopraffatta dal rimorso, si suicida. La sorella, dopo un aspro scontro con la cognata che è venuta a cercare il marito scomparso, si toglie anch'essa la vita.
Dunque, si direbbe che tutto sia chiaro: a non comunicare, dando vita al tragico malinteso a cui Martha (la sorella) attribuisce la morte di Jan (il fratello) [ vedi atto III, scena III: Maria: “sa mère et sa soere étaient donc des criminelles?” Martha: “Oui.” Maria: “Aviez-vous appris déjà qu'il étatit votre frère?” Martha: “si vous voulez le savoir, il y a eu malentendu.” ] sono le donne e gli uomini protagonisti di questo dramma claustrofobico. La causa della mancata o difettosa comunicazione è il proposito del figlio di tacere la sua identità, nonché i diversi intenti con cui ciascuno parla e ascolta. E il malinteso altro non è che l'identità di Jan, scambiato per un estraneo.
E tuttavia, troppi indizi nel testo, oltre al carattere complessivo dell'opera di Camus e le sue ascendenze esistenzialiste, segnalano la presenza di una chiave di lettura diversa e più profonda, tale da conferire a questo dramma un carattere per così dire “metafisico”.
Proviamo ad elencare questi indizi per poi analizzarli separatamente.
1.Il primo elemento che conviene considerare è costituto proprio dal tormento esistenziale che caratterizza tutti i personaggi – con le uniche eccezioni della Moglie (Maria) e del vecchio servitore, su cui torneremo più avanti –. La Madre, Jan e Martha, infatti, sono scossi da un tormento interiore non riducibile ai rimorsi o alle ansie generate dalle rispettive condotte. Jan, ad esempio, nel suo proposito di ritornare alla sua famiglia per ritrovare i suoi affetti è accompagnato da un sentimento cupo dell'esistere, che in parte, forse, è all'origine della sua strana scelta di non rivelare la propria identità. Questo stato d'animo si manifesta clamorosamente nelle scene II e III, del II atto. Tra le tante, mi limiterò a riportare le affermazioni più significative del dramma interiore di Jan: “Si, è in questa stanza che tutto sarà definito (…) com'è fredda, però! Non riconosco più nulla, è stato rimesso tutto a nuovo. Ora sembra una di quelle camere d'albergo di città straniere dove ogni notte giungono uomini soli. Ho conosciuto anche quelle. Allora mi sembrava che ci fosse da trovare una risposta. Forse la saprò qui. (guarda fuori) Il cielo si copre. Ed ecco di nuovo la mia vecchia angoscia qui, nel cavo del mio corpo , come una vecchia ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna, il timore che la risposta non venga. E chi risponderebbe in una camera d'albergo?” (Si è diretto verso il campanello. Esita e poi suona. Non si sente alcun rumore. Un attimo di silenzio, dei passi. Bussano. La porta si apre. Nel riquadro appare il vecchio domestico. Resta immobile e silenzioso). Jan: “Non è niente. Mi scusi. Volevo soltanto vedere se qualcuno rispondeva e se la suoneria funzionava.” (Il vecchio lo guarda e poi chiude la porta. I passi si allontanano) SCENA III Jan: “ La suoneria funziona, ma lui non parla. Non dà una risposta.” (Guarda il cielo. Che fare? Battono dei colpi. Entra la sorella con un vassoio) [corsivi miei]
Quale significato dobbiamo attribuire a queste parole di Jan? Che cos'è, in particolare, la solitudine eterna di cui parla? Qual è la risposta che Jan cerca e attende? Chi deve darla?
È sufficiente per il momento annotare che questo tono, perfino enfatico in certi punti, non può che indicare una condizione esistenziale ben più angosciata e straziata nella sua radicalità di quello che potrebbe essere lo stato d'animo di un figlio che, tornato alla casa dei suoi familiari, tarda ad essere riconosciuto. Vi è dell'altro, come d'altra parte dice chiaramente quell'aggettivo, eterna, che qualifica in modo irrefutabile la condizione di solitudine di Jan.
2.Anche Martha è scossa da un'ansia oscura e tremenda ad un tempo. Martha è forse il personaggio più complesso e importante del dramma, quello nel quale per certi versi si anticipano i tratti del ribelle Sisifo, a cui Camus affiderà in un'opera successiva il ruolo del rappresentante dell'umanità che si rivolta contro la propria condizione. Determinata fino alla ferocia nella sua condotta delittuosa con la quale vuole ottenere la propria liberazione, Martha ha pochi momenti di abbandono e tenerezza. Per il resto è furiosa e astiosa: vuole con tutte le sue forze fuggire dalla propria triste condizione, rappresentata dall'orizzonte chiuso e claustrofobico della terra in cui è condannata a vivere e scatena la sua rabbia contro tutti coloro che implicitamente o esplicitamente le ricordano e le rinfacciano con la loro “umanità” ciò che lei è diventata. Perché in quella bontà così ingenuamente esibita ella vede il riflesso stravolto e rovesciato del volto crudele che ha dovuto fare suo e, nello stesso tempo, la minaccia più insidiosa al suo sogno di fuga e di salvezza. Ella sa infatti che se rispondesse al richiamo del cuore, se cedesse ai sentimenti di umanità e compassione, non potrebbe più mettere in atto il suo proposito, sarebbe condannata alla rinuncia e alla sottomissione. Per questo si scaglia con violenza contro la madre quando questa esita di fronte all'ennesimo crimine che devono compiere. Per questo insulta e respinge con disprezzo il dolore disperato della cognata e maledice sua madre e suo fratello che nella morte hanno ritrovato quell'abbraccio e quelle carezze che lei non ha avuto e che comunque rifiuta con disgusto (atto III, scena III). Si uccide: anima ribelle, e non riconciliata, rifiuta con questo gesto la resa che la sconfitta vuole imporle. Ma è soprattutto nella scena I dell'atto II che il personaggio di Martha rivela il suo tormento, in uno dei rari di sincerità e confidenza, a cui significativamente segue però, spietata e implacabile, la decisione di uccidere l'ospite ignoto. A Jan, infatti, è fatale la forza suggestiva delle sue stesse parole, che, descrivendo “la terra dalle spiagge deserte” da cui proviene, fanno rivivere il sogno che Martha insegue e, al tempo stesso, evocano quei sentimenti di umanità e di commozione che sono il principale ostacolo alla sua realizzazione. Così esse risvegliano in lei la coscienza del pericolo che corre nel momento in cui esita a mettere in atto il suo disegno, insieme alla forza selvaggia del desiderio, che potrà realizzarsi solo se ella saprà perseverare nel suo crimine spietato. [Atto II, scena I] Jan: “ La capisco. La primavera laggiù prende alla gola, i fiori sbocciano a migliaia sui muri bianchi. Se lei camminasse per un'ora sulle colline che circondano la mia città, raccoglierebbe nelle vesti l'odore di miele delle rose gialle.” (Martha si siede) Martha: “E' stupendo. Quel che noi chiamiamo primavera qui sono una rosa e due germogli che sbocciano nel giardino del chiostro. (con disprezzo) Eppure basta a turbare gli uomini del mio paese. Un soffio più potente li farebbe arrossire. Hanno la primavera che si meritano.” Jan: “ Lei non è serena. Voi avete anche l'autunno.” Martha: “Che cos'è l'autunno?” Jan: “Una seconda primavera. Tutte le foglie sono fiori. (la guarda con insistenza) Forse capirebbe così anche le anime. Lei le vedrebbe fiorire, se venisse loro incontro, se fosse paziente.” Queste parole di Jan suonano all'orecchio di Martha come un inopportuno invito a trovare la bellezza nell'autunno della vita, a rassegnarsi ai rari ed esangui fiori di quella terra inospitale, a rinunciare al suo desiderio. Martha, infatti, abbandona il tono sognante e risponde con durezza: “non ho più pazienza per questa Europa”. Ma è quando Jan le fa osservare che per la prima volta si sono parlati con toni umani, che Martha avverte il vertiginoso rischio in cui si trova e reagisce ribadendo la sua determinazione: Jan “... mi sembra che, per la prima volta, voi vi siate rivolta a me con un linguaggio umano.” Martha (con violenza) “Lei si sbaglia, mi creda. E, se anche fosse così, non avrebbe nessuna ragione per rallegrarsene. La mia umanità non è quanto ho di meglio. Ciò che ho di umano è ciò che desidero, e per ottenere ciò che desidero, credo che travolgerei tutto sul mio cammino.” E poco dopo confessa che era venuta a parlargli con l'intenzione di invitarlo a partire (a salvarlo), ma l'appello che egli aveva fatto a ciò che essa ha di umano le avevano fatto mutare proposito. È l'annuncio, con parole irridenti, della decisione definitiva di ucciderlo. Riepiloghiamo dunque i dati emersi: Martha vuole disperatamente fuggire, cerca una via di salvezza (non uso questa parola in modo abusivo, come dimostrano decisivi riscontri nel testo) da una condizione intollerabile. Domandiamoci: che cos'è questa terra da cui vuole scappare a tutti i costi? E che cos'è quell'altra a cui anela, in cui, invece, si può “fuggire, liberarsi, stringere il proprio corpo ad un altro, mescolarsi alle onde … quel paese difeso dal mare dove gli dei non giungono”? Mi sembra evidente che qui Camus accenni, in modo metaforico, alla contrapposizione tra la effettualità dell'esistenza umana e l'aspirazione ad una condizione sgravata dal peso del dolore e della solitudine. Martha anela ad una forma di trascendenza terrena (là “dove gli dei non giungono”), ad una terra promessa di felicità e libertà. Se, possiamo dirlo anticipando qui alcune conclusioni, mentre Jan pone una domanda di senso all'esistenza, Martha vuole una via di salvezza dal dolore della vita (si tratta in realtà di due domande molto simili, come vedremo più avanti. Martha cerca la sua salvezza rivoltandosi contro la vita stessa, se è vero, come lei stessa dice (atto III, scena VIII) che il mondo non è fatto per l'uomo, ma è fatto solo perché ci si muoia. Campione di quella umanità eroica e disperata, destinata alla sconfitta e indomita che Camus celebrerà nel mito di Sisifo, Martha si rivolta contro la vita in nome (e qui emerge la contraddizione che la dilania) di una brama di vita e di felicità che è tanto più furiosa quanto più è disperata.
3.La Madre, infine, è Natura. Tutto in lei accenna alla visceralità delle forze vitali che generano e distruggono ad un tempo. Lei è il seno in cui tutto nasce e muore: i desideri, i sogni, i dolori, i sentimenti, i figli. Anche lei coltiva (sarebbe più corretto dire che coltivava) un progetto di fuga, assieme alla figlia. Ma per ragioni opposte: la figlia vuole una vita più degna e piena, lei vuole il riposo e l'oblio. In uno dei dialoghi decisivi, la Madre implora la figlia di non uccidere l'ospite. Così forse potremo salvarci, le dice. E la figlia rifiuta di usare la parola salvezza: “tutto ciò che possiamo sperare di ottenere è, lavorando questa sera, di poter dormire in seguito.” E la Madre risponde: “Ciò che io chiamo salvarsi: dormire.” Anche la Madre è oppressa da un'angoscia esistenziale, che si identifica con la forza vitale che si spegne, che si esaurisce: “il cuore si consuma, signore.” Il suo disorientamento esistenziale è espresso dalle stanchezza delle membra, dall'esaurimento di quel grembo che ha contenuto tutti gli spasimi della vita e della morte e che ora è esausto e non anela ad altro che al riposo. Se la Figlia ama selvaggiamente la vita ed è scossa da un desiderio violento di liberazione e di salvezza dal dolore e dalla solitudine, la madre è invece la personificazione della forza vitale che si rattrappisce, si ripiega, tende all'immobilità della morte. Priva di complicazioni intellettuali, essa è tutta nella fisicità del suo corpo vivente, nel contatto con gli altri corpi. Come quando ritrova il figlio nell'abbraccio e nelle carezze della morte, in fondo al fiume, quell'abbraccio e quelle carezze evocati e maledetti da Martha (“Je les laisse à leur tendresse retrouvée, a leur caresses obscures”).
4.Un altro importante indizio dell'esistenza di un piano”metafisico” nel Malentendu è costituito dalla figura del vecchio servitore. È stato giustamente osservato che il servitore rappresenta con ogni probabilità Dio. Le ragioni di questa supposizione sono troppo numerose ed evidenti perché sia necessario dilungarsi in una dettagliata dimostrazione. Mi convince meno, invece, l'ipotesi che il servitore sarebbe la personificazione del destino. A meno che non si intenda identificare Dio con il fato e il fato con Dio, cioè con la necessità inderogabile con cui, in ultima istanza, si identifica la realtà stessa di tutte le cose, nonché i loro rapporti. Ma su questo tornerò più avanti. Resta comunque acquisita la presenza di Dio sulla scena, e con essa la conferma che il testo richieda uno sforzo di analisi di tipo speculativo e che il suo oggetto, l'impossibilità di comunicare e l'ineluttabilità del “malinteso”, vada riferito ad un piano più profondo e decisivo rispetto a quello, tutto sommato banale, della meccanica degli equivoci e delle incomprensioni domestiche.
5.Si ripropongono, dunque, i quesiti iniziali: “Chi non comunica? Che cosa viene mal-comunicato/mal-inteso? E, soprattutto, perché?
Iniziamo a esaminare il primo: chi non comunica? ovvero chi malintende, chi è malinteso? Nella scena V del I atto Jan, dopo aver incontrato il vecchio servitore che è entrato e uscito dalla scena senza rispondere, rivolge la seguente domanda a Martha che è venuta a riceverlo: “Est-il muet?” Martha: “C'est nes pas cela.” Jan: “il parle donc?” Martha: “le moins possible et seulement pour l'essentiel.” Jan: “En tout cas, il n'a pas l'air d'entendre ce qu'on lui dit.” Martha: On ne peut pas dire qu'il n'entendre pas. C'est seulement qu'il entend mal.” (corsivo mio) Appunto, intende male! Poiché esistono vari sinonimi del verbo entendre (uno di essi è ouir, udire) sarebbe ingenuo credere che la scelta di Camus sia casuale. Dunque il vecchio servitore (Dio) è colui che malintende. Anzi, egli viene qualificato come tale fin dall'inizio del dramma, prima che la catena dei malintesi si dispieghi. Tutto ciò conferisce al vecchio servitore questa caratteristica in modo potremmo dire eminente rispetto agli altri personaggi, per cui non è avventato dire che egli è il malintenditore per eccellenza. Inoltre, gli altri personaggi parlano e rispondo, e quindi, come vedremo, malintendono e sono malintesi. Dio è l'unico personaggio invece a non parlare (quando lo farà, la sua risposta non ammetterà repliche e su di essa calerà definitivamente il sipario) e quindi è l'unico a non essere malinteso, ma il solo ad essere esclusivamente malintendente.
Questa singolarità del servitore-Dio esige nuove domande: perché dio non sente (o forse non ascolta, o meglio ancora fraintende?) È un dio difettoso? O indifferente? Sono le creature che non sanno comunicare con lui? O sono le domande ad essere poste in modo sbagliato?
Che non senta è escluso. E non solo perché ce lo dice Martha (On ne peut pas dire qu'il n'entendre pas.), ma anche perché in altre circostanze mostra di sentire (atto II, scena II; atto III, scena IV). In entrambi i casi il vecchio servitore dimostra di sentire. E in entrambi i casi la sua condotta è, implicitamente o esplicitamente, una negazione. In entrambi i casi le due creature che lo in-vocano/con-vocano implorano l'aiuto divino. Ciò naturalmente conferma l'identità del vecchio servo. Ma dimostra anche che invocare Dio è inutile, egli appare ma non interviene, o peggio ancora oppone un esplicito rifiuto, quel “no” che non ammette repliche, che sancisce definitamente che non è possibile nessuna comunicazione tra Dio e le creature. Che il rifiuto esplicito venga opposto con gelida indifferenza proprio alla creatura più innocente – alla sposa che non ha commesso alcuna ingiustizia e che ha soltanto vissuto il suo amore – non è certamente senza motivo. Come pure forse non è un caso che ella si chiami Maria. Forse Camus ha voluto sottolineare, con questa chiamata in causa del simbolo cattolico dell'intercessione efficace e della purezza da ogni colpa, l'impossibilità di qualsiasi illusione al riguardo. Ma forse si tratta soltanto di una coincidenza. Sta di fatto che nessuno, tanto meno gli innocenti, possono attendersi pietà. La loro invocazione verrà respinta, senza acrimonia, senza eccessi, con gelida freddezza: “no.”
D'altra parte il vecchio servitore appare sempre senza mostrare alcuna partecipazione un testimone silenzioso ed enigmatico. Ma anche un operatore che, apparentemente privo di una volontà propria, si limita ad assecondare lo svolgersi degli eventi, collaborando con le creature alla realizzazione dei loro scopi. Un servitore, appunto. E, paradossalmente, si comporta così anche quando – anzi, soprattutto quando – compie un'omissione. Nella scena VIII del II atto, infatti, il servitore raccoglie il passaporto che è caduto a Jan mentre le due donne lo stanno trasportando a forza di braccia nel fiume. Lo raccoglie e si ritira, “senza che le donne si avvedano”. Qual è il significato di questo gesto? L'unica spiegazione coerente è che Dio ha sapienza del mondo, ma la cela alle sue creature, affinché esse, cieche, adempiano il destino di dolore e crudeltà che costituisce la verità dell'esistenza. Solo quando tutto sarà irreparabilmente compiuto, egli tornerà per mostrare ciò che aveva nascosto. Dio, quindi, non è il servitore delle creature ( ad esse non risponde) ma il servitore dell'ordine inderogabile e crudele ( quell'ordine che Martha appunto contempla finalmente restaurato alla fine del dramma: “Perché solo adesso tutto è in ordine. Se ne persuada.” Maria: “quale ordine?” Martha: “Quello in cui nessuno è mai riconosciuto.” (atto III, scena III).
Dunque, concludendo questa parte, Dio è il malintenditore e gli uomini sono i malintesi. A loro volta, gli uomini non si riconoscono (Martha) e questo è l'ordine inderogabile che regge il mondo.
6.Ma che cosa è malinteso? Qual è la domanda che non viene capita? O le domande? Il malinteso, è chiaro, riguarda anche le domande che gli uomini si pongono reciprocamente. Ma sono le stesse che pongono a Dio? In un certo senso si potrebbe rispondere a questa domanda sia in modo affermativo che in modo negativo. In un certo senso, infatti, si tratta delle stesse domande, perché ciò che i protagonisti umani si scambiano reciprocamente sono richieste d'aiuto e di senso.
Solo Jan e Maria rivolgono direttamente a Dio una domanda. Il primo cerca la risposta alla paura della solitudine eterna: la sua è quindi una domanda di senso. La seconda chiede aiuto. Cioè chiede anch'essa un senso al dolore. La risposta è entrambi i casi negativa. Camus, anche qui anticipando le posizioni che esprimerà in Il mito di Sisifo e in L'uomo in rivolta, ci dice che la ricerca di salvezza nella fede è destinata al fallimento. Come pure è senza speranza la salvezza che Martha cerca nella rivolta. Ma salvezza da che cosa? Dalla vita, ovviamente; dall'assurdità della vita.
L'etimologia della parola “assurdo” rinvia ad un suono che viene allontanato perché sgradito all'orecchio (“che suona male, ingrato all'orecchio, detto di voce, di suono”). La vita è qualificata come assurda, cioè come non udibile, sgradevole a chi l'ascolta. Qualcosa cioè che si mal-intende. E quindi che non si fa capire. Che non si può capire. La sua verità, se ne ha una, risulta incomprensibile, incomunicabile, perché ripugna a chi la deve ascoltare, intendere. Questa vita, che si fatica ad accettare (da accipere, ricevere), perché si presenta sgradevole, si mal-intende, suscita in Jan (e in Martha e in sua madre) il desiderio di salvezza (trovare un'altra terra) e di senso (la risposta che Jan cerca). La risposta a che cosa? La risposta alla domanda di Jan. Ma qual è questa domanda? In realtà noi non la conosciamo, perché in nessun momento del dramma Jan la formula esplicitamente. Infatti, egli accenna soltanto a una risposta da trovare, o a una risposta che non viene. Ma non dice mai quale sia la domanda. Allora dobbiamo cercare di capirlo interpretando questi accenni e inserendoli nel loro contesto.
Jan è solo nella sua stanza e inizia a parlare con stesso, osservando per prima cosa il luogo in cui si trova e che gli dovrebbe essere familiare, mentre gli appare freddo e estraneo: “Allora [quando anche lui frequentava camere d'albergo anonime dove ogni notte giungono uomini soli] mi sembrava che ci fosse da trovare una risposta.” e subito soggiunge dubbioso: Forse la troverò qui.” La risposta a quale domanda? Non lo sappiamo e Jan non lo dice. Però sappiamo che Jan è solo in una camera d'albergo che gli sembra simile a tante altre nelle quali ha soggiornato in passato. La risposta che Jan sente di dover cercare sembra quindi scaturire dalla condizione di chi è solo in un luogo straniero. Ma, riflettiamo ancora un istante, in che senso Jan è solo? Egli non è uno di quegli uomini soli che giungono di notte in un albergo. È sposato con una donna che lo adora e lo attende trepidante poco lontano da lì. Se ora sono separati è solo perché lui ha voluto così, costringendo Maria ad andarsene contro la sua volontà. In ogni momento potrebbe decidere di porre fine a quella commedia e tornare da lei. E ritroverebbe nelle sue braccia tutto il suo amore. Dunque la sua solitudine attuale è solo temporanea e per di più volontaria. Non può essere questa solitudine a generare un bisogno così antico e angosciante di una risposta. A meno che questa solitudine quotidiana sia la metafora di una condizione ben più profonda. La conferma di ciò la troviamo nelle parole con cui Jan prosegue il suo soliloquio: “Il cielo si copre. E ecco di nuovo la mia vecchia angoscia qui, nel cavo del mio corpo, come una vecchia ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna. Che la risposta non venga.” dunque Jan porta in sé un'angoscia antica, che è divenuta una pena nascosta (nel cavo del mio corpo, una vecchia ferita che ogni movimento irrita). E questa angoscia, e questo dolore assiduo hanno un nome: solitudine eterna. Ovvero, mancanza della risposta (che la risposta non venga). In altre parole, la solitudine eterna coincide con la mancanza di quella risposta, e, dunque, possiamo dire che è la mancanza della risposta che genera quella solitudine eterna. Che cosa ci sta dicendo Jan? Certo, ci dice che la solitudine che lo affligge (ma lo avevamo capito già) non è la banale condizione di chi per un certo tempo non è in compagnia di qualcuno. La solitudine che lo assilla, infatti, è eterna. Ma in che senso Jan può essere minacciato dalla solitudine eterna? E cosa dobbiamo intendere quando Jan dice che la solitudine eterna è la mancanza della risposta?
7.Vi è solo un modo per dare un senso a queste parole, ed è quello di riferirle al piano della trascendenza, o meglio, della sua impossibilità. L'angoscia di Jan, infatti, altro non è che il timore che l'esistenza altro non sia che un effimero episodio nell'eterno fluire delle cose, un insignificante evento compreso tra il Nulla infinito che lo precede (e dal quale pro-cede) e il Nulla infinito che lo attende per inghiottirlo in sé, senza che ne resti traccia. O, che è lo stesso, che l'esistenza non sia altro che una delle infinite configurazioni dell'Essere, destinate ad essere cancellate per lasciare il posto ad altre, a loro volta destinate a sparire in un avvicendamento infinito dove solo il nascere e il perire si conserva. Questa è la solitudine eterna che angoscia Jan e che provoca in lui quella ricerca di una risposta che altro non è, in realtà, che l'invocazione disperata di senso (e quindi di salvezza) della coscienza umana posta di fronte alla realtà del proprio annientamento. Essa potrebbe suonare pressappoco così: “l'esistenza ha un senso “altro” rispetto al crudele destino che sembra governare tutte le cose, le quali, venendo alla vita, sono perciò stesso forzate alla morte, all'annichilimento?”
Hannah Arendt sostiene che per l'uomo greco la concezione dell'immortalità nasca dall'esperienza di una natura immortale (e di dei immortali) che insieme circondano le vite degli unici esseri mortali, gli uomini. Infatti “la vita individuale si distingue da tutte le altre per il corso rettilineo del suo movimento, che, per così dire, taglia quello circolare della vita biologica. La mortalità è questo: muoversi lungo una linea retta in un universo dove ogni cosa dotata di movimento si muove in un ordine ciclico.” (Vita activa). Se hanno un fondamento le teorie della nascita e della morte (termica) dell'universo, oggi dovremmo sostituire alla visione ciclica della natura e della vita biologica una dinamica di tipo lineare (solo apparentemente simile alla traiettoria lineare della vita umana) anche nella natura. Ma anche in questo caso non verrebbe meno l'eccezionalità della condizione umana. Infatti, la mortalità rimarrebbe un muoversi lungo una linea retta, da un capo all'altro della linea, con la coscienza di questo inizio e di questa fine. Per questo gli uomini restano, anche in universo che non si muove più secondo un ordine ciclico, gli unici mortali, perché sono gli unici morituri, cioè gli unici consapevoli del loro destino. E questa è la solitudine del vivente umano. E da essa nasce l'invocazione di un senso che trascenda ciò che altrimenti appare insensato. E questa domanda non può che essere rivolta a Dio, se con Dio intendiamo ciò che dà all'essere un senso che trascende il mero esistere, nella misura in cui quell'essere, altrimenti, non ha in sé altro senso che la sua mera fattualità. Ma Dio, lo sappiamo, non risponde: “La porta si apre. Nel riquadro appare il vecchio domestico. Resta immobile e silenzioso). Jan: “Non è niente. Mi scusi. Volevo soltanto vedere se qualcuno rispondeva e se la suoneria funzionava.” (Il vecchio lo guarda e poi chiude la porta. I passi si allontanano) SCENA III Jan: “ La suoneria funziona, ma lui non parla. Non dà una risposta.”
Ma se è vero che la risposta non viene, è anche vero che neppure la domanda è formulata. Quella di Jan, infatti, è un'invocazione muta, senza parole. Come silenzioso è il suo appello alla Madre e alla Sorella, da cui spera di essere riconosciuto per la forza dell'amore e del sangue, senza dover pronunciare il suo nome, senza doversi dichiarare. Insomma, è come se per Jan l'esistere fosse di per sé già eloquente, cioè esprimesse, per il fatto stesso di consistere, quella domanda di senso e di amore. Anzi, quasi che l'esistenza della coscienza del proprio finire, realtà enigmatica e paradossale in un universo indifferente e sordo perché inconsapevole del morire e quindi immortale, non fosse altro che quella domanda assurda, cioè non udibile. In questo senso il malinteso è ineluttabile. In qualsiasi modo la domanda venga formulata non potrà mai essere intesa: chi la deve recepire, infatti, non potrà mai farlo in quanto essa è per lui priva di significato, proprio in quanto chiede un significato, si basa su un significato. In questo senso il vivente umano è condannato alla solitudine di chi parla una lingua che nessuno comprende; egli è lo straniero condannato a vivere in un mondo che non è la sua casa, ma solo il luogo dove morirà. Come dice Martha, “Questa casa non è la sua, infatti. Perché non è di nessuno. E nessuno vi potrà mai trovare calore e abbandono” il mondo è fatto “perché ci si muoia.” La casa in cui Jan, al pari di tutti gli umani, è un estraneo è l'essere, nel quale il vivente è accolto affinché, vivendo e perendo, il tutto si conservi, e il ciclo di generazione-distruzione si perpetui. L'essere è qui, intorno a noi e in noi, in ciascuno di noi viventi-morenti. È presente, ma anche assente, infinitamente lontano e inaccessibile, proprio perché così prossimo, intimo. L'esistenza umana è infatti l'essere stesso, di cui costituisce un frammento. Non c'è scarto, non c'è trascendenza e non c'è salvezza. Perché non c'è salvezza dalla vita. Non c'è salvezza alla solitudine eterna che è la vita. Jan e Martha cercano una risposta, costruiscono un progetto di fuga. Inutilmente. Perché nessuno può intendere il loro linguaggio. Essi sono i malintesi, e le loro domande di salvezza e di senso non hanno chi le ascolta. Per questo non vi è risposta. Se vi fosse una risposta l'assurdo della vita non sarebbe più tale. Ma la vita è assurda perché essa semplicemente è, e questo suo essere è fondato in sé stesso, senza un perché che lo trascenda. La vita (cioè l'essere delle cose che è presso ognuna di esse, ma anche infinitamente lontano da ciascuna nella loro individualità) non deve rendere conto del suo esistere, perché ogni domanda pretende di definire un senso dove non esiste altro senso che quello dell'essere. Le creature, quelle strane creature che sono i mortali, fanno domande che sono destinate a cadere nel vuoto perché chiedono di tracciare una direzione, un senso, là dove esistono tutti i sensi e quindi non ne esiste nessuno in particolare. E, soprattutto, non ne esiste nessuno che non sia quello del tutto. Nel senso dell'essere, infatti, sono contenuti tutti i sensi dei viventi, che non sono però i loro sensi, ma quelli dell'essere. Secondo Camus, a ciò non c'è scampo. Siamo condannati alla sconfitta.
Ma, forse, questo non è l'unico modo di vivere la condizione tragica nella quale ci troviamo. Non è necessario che la consapevolezza lucida di questa condizione si trasformi in una visione così disperata e disperante. Ma questo è un altro discorso che richiederebbe di uscire dal compito che ci siamo dati di commentare Le malentendu.
Iscriviti a:
Post (Atom)