LE MALENTENDU
Le Malentendu è il dramma della incomunicabilità, è stato detto. E questa affermazione è indubbiamente corretta. Ma, allora, è necessario domandarsi anche: chi non riesce a comunicare? Che cosa viene mal-comunicato, mal-inteso? E, soprattutto, perché?
La concatenazione tragica degli avvenimenti rappresentati nel dramma (peraltro ispirati ad un fatto di cronaca realmente accaduto) sembrerebbe autorizzare una risposta abbastanza scontata a tutti e tre i quesiti: un giovane uomo torna alla sua famiglia (composta da una madre e una sorella) che aveva abbandonato venti anni prima. Vuole risarcire le due donne dei sacrifici che hanno dovuto sopportare in tutti quegli anni anche a causa del suo abbandono. Anziché rivelare immediatamente la sua identità, si presenta al loro albergo come un ospite occasionale, confidando che l'affetto susciterà in loro il suo ricordo. Ma in tutti quegli anni le donne si sono date al crimine: uccidono i viaggiatori solitari che albergano presso di loro per rapinarli. Nonostante i tentativi che il giovane compie per indurre nella madre e nella sorella il suo ricordo, esse non lo riconoscono e lo uccidono. Soltanto dopo, accidentalmente, scoprono la vera identità della loro vittima. La madre, sopraffatta dal rimorso, si suicida. La sorella, dopo un aspro scontro con la cognata che è venuta a cercare il marito scomparso, si toglie anch'essa la vita.
Dunque, si direbbe che tutto sia chiaro: a non comunicare, dando vita al tragico malinteso a cui Martha (la sorella) attribuisce la morte di Jan (il fratello) [ vedi atto III, scena III: Maria: “sa mère et sa soere étaient donc des criminelles?” Martha: “Oui.” Maria: “Aviez-vous appris déjà qu'il étatit votre frère?” Martha: “si vous voulez le savoir, il y a eu malentendu.” ] sono le donne e gli uomini protagonisti di questo dramma claustrofobico. La causa della mancata o difettosa comunicazione è il proposito del figlio di tacere la sua identità, nonché i diversi intenti con cui ciascuno parla e ascolta. E il malinteso altro non è che l'identità di Jan, scambiato per un estraneo.
E tuttavia, troppi indizi nel testo, oltre al carattere complessivo dell'opera di Camus e le sue ascendenze esistenzialiste, segnalano la presenza di una chiave di lettura diversa e più profonda, tale da conferire a questo dramma un carattere per così dire “metafisico”.
Proviamo ad elencare questi indizi per poi analizzarli separatamente.
1.Il primo elemento che conviene considerare è costituto proprio dal tormento esistenziale che caratterizza tutti i personaggi – con le uniche eccezioni della Moglie (Maria) e del vecchio servitore, su cui torneremo più avanti –. La Madre, Jan e Martha, infatti, sono scossi da un tormento interiore non riducibile ai rimorsi o alle ansie generate dalle rispettive condotte. Jan, ad esempio, nel suo proposito di ritornare alla sua famiglia per ritrovare i suoi affetti è accompagnato da un sentimento cupo dell'esistere, che in parte, forse, è all'origine della sua strana scelta di non rivelare la propria identità. Questo stato d'animo si manifesta clamorosamente nelle scene II e III, del II atto. Tra le tante, mi limiterò a riportare le affermazioni più significative del dramma interiore di Jan: “Si, è in questa stanza che tutto sarà definito (…) com'è fredda, però! Non riconosco più nulla, è stato rimesso tutto a nuovo. Ora sembra una di quelle camere d'albergo di città straniere dove ogni notte giungono uomini soli. Ho conosciuto anche quelle. Allora mi sembrava che ci fosse da trovare una risposta. Forse la saprò qui. (guarda fuori) Il cielo si copre. Ed ecco di nuovo la mia vecchia angoscia qui, nel cavo del mio corpo , come una vecchia ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna, il timore che la risposta non venga. E chi risponderebbe in una camera d'albergo?” (Si è diretto verso il campanello. Esita e poi suona. Non si sente alcun rumore. Un attimo di silenzio, dei passi. Bussano. La porta si apre. Nel riquadro appare il vecchio domestico. Resta immobile e silenzioso). Jan: “Non è niente. Mi scusi. Volevo soltanto vedere se qualcuno rispondeva e se la suoneria funzionava.” (Il vecchio lo guarda e poi chiude la porta. I passi si allontanano) SCENA III Jan: “ La suoneria funziona, ma lui non parla. Non dà una risposta.” (Guarda il cielo. Che fare? Battono dei colpi. Entra la sorella con un vassoio) [corsivi miei]
Quale significato dobbiamo attribuire a queste parole di Jan? Che cos'è, in particolare, la solitudine eterna di cui parla? Qual è la risposta che Jan cerca e attende? Chi deve darla?
È sufficiente per il momento annotare che questo tono, perfino enfatico in certi punti, non può che indicare una condizione esistenziale ben più angosciata e straziata nella sua radicalità di quello che potrebbe essere lo stato d'animo di un figlio che, tornato alla casa dei suoi familiari, tarda ad essere riconosciuto. Vi è dell'altro, come d'altra parte dice chiaramente quell'aggettivo, eterna, che qualifica in modo irrefutabile la condizione di solitudine di Jan.
2.Anche Martha è scossa da un'ansia oscura e tremenda ad un tempo. Martha è forse il personaggio più complesso e importante del dramma, quello nel quale per certi versi si anticipano i tratti del ribelle Sisifo, a cui Camus affiderà in un'opera successiva il ruolo del rappresentante dell'umanità che si rivolta contro la propria condizione. Determinata fino alla ferocia nella sua condotta delittuosa con la quale vuole ottenere la propria liberazione, Martha ha pochi momenti di abbandono e tenerezza. Per il resto è furiosa e astiosa: vuole con tutte le sue forze fuggire dalla propria triste condizione, rappresentata dall'orizzonte chiuso e claustrofobico della terra in cui è condannata a vivere e scatena la sua rabbia contro tutti coloro che implicitamente o esplicitamente le ricordano e le rinfacciano con la loro “umanità” ciò che lei è diventata. Perché in quella bontà così ingenuamente esibita ella vede il riflesso stravolto e rovesciato del volto crudele che ha dovuto fare suo e, nello stesso tempo, la minaccia più insidiosa al suo sogno di fuga e di salvezza. Ella sa infatti che se rispondesse al richiamo del cuore, se cedesse ai sentimenti di umanità e compassione, non potrebbe più mettere in atto il suo proposito, sarebbe condannata alla rinuncia e alla sottomissione. Per questo si scaglia con violenza contro la madre quando questa esita di fronte all'ennesimo crimine che devono compiere. Per questo insulta e respinge con disprezzo il dolore disperato della cognata e maledice sua madre e suo fratello che nella morte hanno ritrovato quell'abbraccio e quelle carezze che lei non ha avuto e che comunque rifiuta con disgusto (atto III, scena III). Si uccide: anima ribelle, e non riconciliata, rifiuta con questo gesto la resa che la sconfitta vuole imporle. Ma è soprattutto nella scena I dell'atto II che il personaggio di Martha rivela il suo tormento, in uno dei rari di sincerità e confidenza, a cui significativamente segue però, spietata e implacabile, la decisione di uccidere l'ospite ignoto. A Jan, infatti, è fatale la forza suggestiva delle sue stesse parole, che, descrivendo “la terra dalle spiagge deserte” da cui proviene, fanno rivivere il sogno che Martha insegue e, al tempo stesso, evocano quei sentimenti di umanità e di commozione che sono il principale ostacolo alla sua realizzazione. Così esse risvegliano in lei la coscienza del pericolo che corre nel momento in cui esita a mettere in atto il suo disegno, insieme alla forza selvaggia del desiderio, che potrà realizzarsi solo se ella saprà perseverare nel suo crimine spietato. [Atto II, scena I] Jan: “ La capisco. La primavera laggiù prende alla gola, i fiori sbocciano a migliaia sui muri bianchi. Se lei camminasse per un'ora sulle colline che circondano la mia città, raccoglierebbe nelle vesti l'odore di miele delle rose gialle.” (Martha si siede) Martha: “E' stupendo. Quel che noi chiamiamo primavera qui sono una rosa e due germogli che sbocciano nel giardino del chiostro. (con disprezzo) Eppure basta a turbare gli uomini del mio paese. Un soffio più potente li farebbe arrossire. Hanno la primavera che si meritano.” Jan: “ Lei non è serena. Voi avete anche l'autunno.” Martha: “Che cos'è l'autunno?” Jan: “Una seconda primavera. Tutte le foglie sono fiori. (la guarda con insistenza) Forse capirebbe così anche le anime. Lei le vedrebbe fiorire, se venisse loro incontro, se fosse paziente.” Queste parole di Jan suonano all'orecchio di Martha come un inopportuno invito a trovare la bellezza nell'autunno della vita, a rassegnarsi ai rari ed esangui fiori di quella terra inospitale, a rinunciare al suo desiderio. Martha, infatti, abbandona il tono sognante e risponde con durezza: “non ho più pazienza per questa Europa”. Ma è quando Jan le fa osservare che per la prima volta si sono parlati con toni umani, che Martha avverte il vertiginoso rischio in cui si trova e reagisce ribadendo la sua determinazione: Jan “... mi sembra che, per la prima volta, voi vi siate rivolta a me con un linguaggio umano.” Martha (con violenza) “Lei si sbaglia, mi creda. E, se anche fosse così, non avrebbe nessuna ragione per rallegrarsene. La mia umanità non è quanto ho di meglio. Ciò che ho di umano è ciò che desidero, e per ottenere ciò che desidero, credo che travolgerei tutto sul mio cammino.” E poco dopo confessa che era venuta a parlargli con l'intenzione di invitarlo a partire (a salvarlo), ma l'appello che egli aveva fatto a ciò che essa ha di umano le avevano fatto mutare proposito. È l'annuncio, con parole irridenti, della decisione definitiva di ucciderlo. Riepiloghiamo dunque i dati emersi: Martha vuole disperatamente fuggire, cerca una via di salvezza (non uso questa parola in modo abusivo, come dimostrano decisivi riscontri nel testo) da una condizione intollerabile. Domandiamoci: che cos'è questa terra da cui vuole scappare a tutti i costi? E che cos'è quell'altra a cui anela, in cui, invece, si può “fuggire, liberarsi, stringere il proprio corpo ad un altro, mescolarsi alle onde … quel paese difeso dal mare dove gli dei non giungono”? Mi sembra evidente che qui Camus accenni, in modo metaforico, alla contrapposizione tra la effettualità dell'esistenza umana e l'aspirazione ad una condizione sgravata dal peso del dolore e della solitudine. Martha anela ad una forma di trascendenza terrena (là “dove gli dei non giungono”), ad una terra promessa di felicità e libertà. Se, possiamo dirlo anticipando qui alcune conclusioni, mentre Jan pone una domanda di senso all'esistenza, Martha vuole una via di salvezza dal dolore della vita (si tratta in realtà di due domande molto simili, come vedremo più avanti. Martha cerca la sua salvezza rivoltandosi contro la vita stessa, se è vero, come lei stessa dice (atto III, scena VIII) che il mondo non è fatto per l'uomo, ma è fatto solo perché ci si muoia. Campione di quella umanità eroica e disperata, destinata alla sconfitta e indomita che Camus celebrerà nel mito di Sisifo, Martha si rivolta contro la vita in nome (e qui emerge la contraddizione che la dilania) di una brama di vita e di felicità che è tanto più furiosa quanto più è disperata.
3.La Madre, infine, è Natura. Tutto in lei accenna alla visceralità delle forze vitali che generano e distruggono ad un tempo. Lei è il seno in cui tutto nasce e muore: i desideri, i sogni, i dolori, i sentimenti, i figli. Anche lei coltiva (sarebbe più corretto dire che coltivava) un progetto di fuga, assieme alla figlia. Ma per ragioni opposte: la figlia vuole una vita più degna e piena, lei vuole il riposo e l'oblio. In uno dei dialoghi decisivi, la Madre implora la figlia di non uccidere l'ospite. Così forse potremo salvarci, le dice. E la figlia rifiuta di usare la parola salvezza: “tutto ciò che possiamo sperare di ottenere è, lavorando questa sera, di poter dormire in seguito.” E la Madre risponde: “Ciò che io chiamo salvarsi: dormire.” Anche la Madre è oppressa da un'angoscia esistenziale, che si identifica con la forza vitale che si spegne, che si esaurisce: “il cuore si consuma, signore.” Il suo disorientamento esistenziale è espresso dalle stanchezza delle membra, dall'esaurimento di quel grembo che ha contenuto tutti gli spasimi della vita e della morte e che ora è esausto e non anela ad altro che al riposo. Se la Figlia ama selvaggiamente la vita ed è scossa da un desiderio violento di liberazione e di salvezza dal dolore e dalla solitudine, la madre è invece la personificazione della forza vitale che si rattrappisce, si ripiega, tende all'immobilità della morte. Priva di complicazioni intellettuali, essa è tutta nella fisicità del suo corpo vivente, nel contatto con gli altri corpi. Come quando ritrova il figlio nell'abbraccio e nelle carezze della morte, in fondo al fiume, quell'abbraccio e quelle carezze evocati e maledetti da Martha (“Je les laisse à leur tendresse retrouvée, a leur caresses obscures”).
4.Un altro importante indizio dell'esistenza di un piano”metafisico” nel Malentendu è costituito dalla figura del vecchio servitore. È stato giustamente osservato che il servitore rappresenta con ogni probabilità Dio. Le ragioni di questa supposizione sono troppo numerose ed evidenti perché sia necessario dilungarsi in una dettagliata dimostrazione. Mi convince meno, invece, l'ipotesi che il servitore sarebbe la personificazione del destino. A meno che non si intenda identificare Dio con il fato e il fato con Dio, cioè con la necessità inderogabile con cui, in ultima istanza, si identifica la realtà stessa di tutte le cose, nonché i loro rapporti. Ma su questo tornerò più avanti. Resta comunque acquisita la presenza di Dio sulla scena, e con essa la conferma che il testo richieda uno sforzo di analisi di tipo speculativo e che il suo oggetto, l'impossibilità di comunicare e l'ineluttabilità del “malinteso”, vada riferito ad un piano più profondo e decisivo rispetto a quello, tutto sommato banale, della meccanica degli equivoci e delle incomprensioni domestiche.
5.Si ripropongono, dunque, i quesiti iniziali: “Chi non comunica? Che cosa viene mal-comunicato/mal-inteso? E, soprattutto, perché?
Iniziamo a esaminare il primo: chi non comunica? ovvero chi malintende, chi è malinteso? Nella scena V del I atto Jan, dopo aver incontrato il vecchio servitore che è entrato e uscito dalla scena senza rispondere, rivolge la seguente domanda a Martha che è venuta a riceverlo: “Est-il muet?” Martha: “C'est nes pas cela.” Jan: “il parle donc?” Martha: “le moins possible et seulement pour l'essentiel.” Jan: “En tout cas, il n'a pas l'air d'entendre ce qu'on lui dit.” Martha: On ne peut pas dire qu'il n'entendre pas. C'est seulement qu'il entend mal.” (corsivo mio) Appunto, intende male! Poiché esistono vari sinonimi del verbo entendre (uno di essi è ouir, udire) sarebbe ingenuo credere che la scelta di Camus sia casuale. Dunque il vecchio servitore (Dio) è colui che malintende. Anzi, egli viene qualificato come tale fin dall'inizio del dramma, prima che la catena dei malintesi si dispieghi. Tutto ciò conferisce al vecchio servitore questa caratteristica in modo potremmo dire eminente rispetto agli altri personaggi, per cui non è avventato dire che egli è il malintenditore per eccellenza. Inoltre, gli altri personaggi parlano e rispondo, e quindi, come vedremo, malintendono e sono malintesi. Dio è l'unico personaggio invece a non parlare (quando lo farà, la sua risposta non ammetterà repliche e su di essa calerà definitivamente il sipario) e quindi è l'unico a non essere malinteso, ma il solo ad essere esclusivamente malintendente.
Questa singolarità del servitore-Dio esige nuove domande: perché dio non sente (o forse non ascolta, o meglio ancora fraintende?) È un dio difettoso? O indifferente? Sono le creature che non sanno comunicare con lui? O sono le domande ad essere poste in modo sbagliato?
Che non senta è escluso. E non solo perché ce lo dice Martha (On ne peut pas dire qu'il n'entendre pas.), ma anche perché in altre circostanze mostra di sentire (atto II, scena II; atto III, scena IV). In entrambi i casi il vecchio servitore dimostra di sentire. E in entrambi i casi la sua condotta è, implicitamente o esplicitamente, una negazione. In entrambi i casi le due creature che lo in-vocano/con-vocano implorano l'aiuto divino. Ciò naturalmente conferma l'identità del vecchio servo. Ma dimostra anche che invocare Dio è inutile, egli appare ma non interviene, o peggio ancora oppone un esplicito rifiuto, quel “no” che non ammette repliche, che sancisce definitamente che non è possibile nessuna comunicazione tra Dio e le creature. Che il rifiuto esplicito venga opposto con gelida indifferenza proprio alla creatura più innocente – alla sposa che non ha commesso alcuna ingiustizia e che ha soltanto vissuto il suo amore – non è certamente senza motivo. Come pure forse non è un caso che ella si chiami Maria. Forse Camus ha voluto sottolineare, con questa chiamata in causa del simbolo cattolico dell'intercessione efficace e della purezza da ogni colpa, l'impossibilità di qualsiasi illusione al riguardo. Ma forse si tratta soltanto di una coincidenza. Sta di fatto che nessuno, tanto meno gli innocenti, possono attendersi pietà. La loro invocazione verrà respinta, senza acrimonia, senza eccessi, con gelida freddezza: “no.”
D'altra parte il vecchio servitore appare sempre senza mostrare alcuna partecipazione un testimone silenzioso ed enigmatico. Ma anche un operatore che, apparentemente privo di una volontà propria, si limita ad assecondare lo svolgersi degli eventi, collaborando con le creature alla realizzazione dei loro scopi. Un servitore, appunto. E, paradossalmente, si comporta così anche quando – anzi, soprattutto quando – compie un'omissione. Nella scena VIII del II atto, infatti, il servitore raccoglie il passaporto che è caduto a Jan mentre le due donne lo stanno trasportando a forza di braccia nel fiume. Lo raccoglie e si ritira, “senza che le donne si avvedano”. Qual è il significato di questo gesto? L'unica spiegazione coerente è che Dio ha sapienza del mondo, ma la cela alle sue creature, affinché esse, cieche, adempiano il destino di dolore e crudeltà che costituisce la verità dell'esistenza. Solo quando tutto sarà irreparabilmente compiuto, egli tornerà per mostrare ciò che aveva nascosto. Dio, quindi, non è il servitore delle creature ( ad esse non risponde) ma il servitore dell'ordine inderogabile e crudele ( quell'ordine che Martha appunto contempla finalmente restaurato alla fine del dramma: “Perché solo adesso tutto è in ordine. Se ne persuada.” Maria: “quale ordine?” Martha: “Quello in cui nessuno è mai riconosciuto.” (atto III, scena III).
Dunque, concludendo questa parte, Dio è il malintenditore e gli uomini sono i malintesi. A loro volta, gli uomini non si riconoscono (Martha) e questo è l'ordine inderogabile che regge il mondo.
6.Ma che cosa è malinteso? Qual è la domanda che non viene capita? O le domande? Il malinteso, è chiaro, riguarda anche le domande che gli uomini si pongono reciprocamente. Ma sono le stesse che pongono a Dio? In un certo senso si potrebbe rispondere a questa domanda sia in modo affermativo che in modo negativo. In un certo senso, infatti, si tratta delle stesse domande, perché ciò che i protagonisti umani si scambiano reciprocamente sono richieste d'aiuto e di senso.
Solo Jan e Maria rivolgono direttamente a Dio una domanda. Il primo cerca la risposta alla paura della solitudine eterna: la sua è quindi una domanda di senso. La seconda chiede aiuto. Cioè chiede anch'essa un senso al dolore. La risposta è entrambi i casi negativa. Camus, anche qui anticipando le posizioni che esprimerà in Il mito di Sisifo e in L'uomo in rivolta, ci dice che la ricerca di salvezza nella fede è destinata al fallimento. Come pure è senza speranza la salvezza che Martha cerca nella rivolta. Ma salvezza da che cosa? Dalla vita, ovviamente; dall'assurdità della vita.
L'etimologia della parola “assurdo” rinvia ad un suono che viene allontanato perché sgradito all'orecchio (“che suona male, ingrato all'orecchio, detto di voce, di suono”). La vita è qualificata come assurda, cioè come non udibile, sgradevole a chi l'ascolta. Qualcosa cioè che si mal-intende. E quindi che non si fa capire. Che non si può capire. La sua verità, se ne ha una, risulta incomprensibile, incomunicabile, perché ripugna a chi la deve ascoltare, intendere. Questa vita, che si fatica ad accettare (da accipere, ricevere), perché si presenta sgradevole, si mal-intende, suscita in Jan (e in Martha e in sua madre) il desiderio di salvezza (trovare un'altra terra) e di senso (la risposta che Jan cerca). La risposta a che cosa? La risposta alla domanda di Jan. Ma qual è questa domanda? In realtà noi non la conosciamo, perché in nessun momento del dramma Jan la formula esplicitamente. Infatti, egli accenna soltanto a una risposta da trovare, o a una risposta che non viene. Ma non dice mai quale sia la domanda. Allora dobbiamo cercare di capirlo interpretando questi accenni e inserendoli nel loro contesto.
Jan è solo nella sua stanza e inizia a parlare con stesso, osservando per prima cosa il luogo in cui si trova e che gli dovrebbe essere familiare, mentre gli appare freddo e estraneo: “Allora [quando anche lui frequentava camere d'albergo anonime dove ogni notte giungono uomini soli] mi sembrava che ci fosse da trovare una risposta.” e subito soggiunge dubbioso: Forse la troverò qui.” La risposta a quale domanda? Non lo sappiamo e Jan non lo dice. Però sappiamo che Jan è solo in una camera d'albergo che gli sembra simile a tante altre nelle quali ha soggiornato in passato. La risposta che Jan sente di dover cercare sembra quindi scaturire dalla condizione di chi è solo in un luogo straniero. Ma, riflettiamo ancora un istante, in che senso Jan è solo? Egli non è uno di quegli uomini soli che giungono di notte in un albergo. È sposato con una donna che lo adora e lo attende trepidante poco lontano da lì. Se ora sono separati è solo perché lui ha voluto così, costringendo Maria ad andarsene contro la sua volontà. In ogni momento potrebbe decidere di porre fine a quella commedia e tornare da lei. E ritroverebbe nelle sue braccia tutto il suo amore. Dunque la sua solitudine attuale è solo temporanea e per di più volontaria. Non può essere questa solitudine a generare un bisogno così antico e angosciante di una risposta. A meno che questa solitudine quotidiana sia la metafora di una condizione ben più profonda. La conferma di ciò la troviamo nelle parole con cui Jan prosegue il suo soliloquio: “Il cielo si copre. E ecco di nuovo la mia vecchia angoscia qui, nel cavo del mio corpo, come una vecchia ferita che ogni movimento irrita. Conosco il suo nome. È la paura della solitudine eterna. Che la risposta non venga.” dunque Jan porta in sé un'angoscia antica, che è divenuta una pena nascosta (nel cavo del mio corpo, una vecchia ferita che ogni movimento irrita). E questa angoscia, e questo dolore assiduo hanno un nome: solitudine eterna. Ovvero, mancanza della risposta (che la risposta non venga). In altre parole, la solitudine eterna coincide con la mancanza di quella risposta, e, dunque, possiamo dire che è la mancanza della risposta che genera quella solitudine eterna. Che cosa ci sta dicendo Jan? Certo, ci dice che la solitudine che lo affligge (ma lo avevamo capito già) non è la banale condizione di chi per un certo tempo non è in compagnia di qualcuno. La solitudine che lo assilla, infatti, è eterna. Ma in che senso Jan può essere minacciato dalla solitudine eterna? E cosa dobbiamo intendere quando Jan dice che la solitudine eterna è la mancanza della risposta?
7.Vi è solo un modo per dare un senso a queste parole, ed è quello di riferirle al piano della trascendenza, o meglio, della sua impossibilità. L'angoscia di Jan, infatti, altro non è che il timore che l'esistenza altro non sia che un effimero episodio nell'eterno fluire delle cose, un insignificante evento compreso tra il Nulla infinito che lo precede (e dal quale pro-cede) e il Nulla infinito che lo attende per inghiottirlo in sé, senza che ne resti traccia. O, che è lo stesso, che l'esistenza non sia altro che una delle infinite configurazioni dell'Essere, destinate ad essere cancellate per lasciare il posto ad altre, a loro volta destinate a sparire in un avvicendamento infinito dove solo il nascere e il perire si conserva. Questa è la solitudine eterna che angoscia Jan e che provoca in lui quella ricerca di una risposta che altro non è, in realtà, che l'invocazione disperata di senso (e quindi di salvezza) della coscienza umana posta di fronte alla realtà del proprio annientamento. Essa potrebbe suonare pressappoco così: “l'esistenza ha un senso “altro” rispetto al crudele destino che sembra governare tutte le cose, le quali, venendo alla vita, sono perciò stesso forzate alla morte, all'annichilimento?”
Hannah Arendt sostiene che per l'uomo greco la concezione dell'immortalità nasca dall'esperienza di una natura immortale (e di dei immortali) che insieme circondano le vite degli unici esseri mortali, gli uomini. Infatti “la vita individuale si distingue da tutte le altre per il corso rettilineo del suo movimento, che, per così dire, taglia quello circolare della vita biologica. La mortalità è questo: muoversi lungo una linea retta in un universo dove ogni cosa dotata di movimento si muove in un ordine ciclico.” (Vita activa). Se hanno un fondamento le teorie della nascita e della morte (termica) dell'universo, oggi dovremmo sostituire alla visione ciclica della natura e della vita biologica una dinamica di tipo lineare (solo apparentemente simile alla traiettoria lineare della vita umana) anche nella natura. Ma anche in questo caso non verrebbe meno l'eccezionalità della condizione umana. Infatti, la mortalità rimarrebbe un muoversi lungo una linea retta, da un capo all'altro della linea, con la coscienza di questo inizio e di questa fine. Per questo gli uomini restano, anche in universo che non si muove più secondo un ordine ciclico, gli unici mortali, perché sono gli unici morituri, cioè gli unici consapevoli del loro destino. E questa è la solitudine del vivente umano. E da essa nasce l'invocazione di un senso che trascenda ciò che altrimenti appare insensato. E questa domanda non può che essere rivolta a Dio, se con Dio intendiamo ciò che dà all'essere un senso che trascende il mero esistere, nella misura in cui quell'essere, altrimenti, non ha in sé altro senso che la sua mera fattualità. Ma Dio, lo sappiamo, non risponde: “La porta si apre. Nel riquadro appare il vecchio domestico. Resta immobile e silenzioso). Jan: “Non è niente. Mi scusi. Volevo soltanto vedere se qualcuno rispondeva e se la suoneria funzionava.” (Il vecchio lo guarda e poi chiude la porta. I passi si allontanano) SCENA III Jan: “ La suoneria funziona, ma lui non parla. Non dà una risposta.”
Ma se è vero che la risposta non viene, è anche vero che neppure la domanda è formulata. Quella di Jan, infatti, è un'invocazione muta, senza parole. Come silenzioso è il suo appello alla Madre e alla Sorella, da cui spera di essere riconosciuto per la forza dell'amore e del sangue, senza dover pronunciare il suo nome, senza doversi dichiarare. Insomma, è come se per Jan l'esistere fosse di per sé già eloquente, cioè esprimesse, per il fatto stesso di consistere, quella domanda di senso e di amore. Anzi, quasi che l'esistenza della coscienza del proprio finire, realtà enigmatica e paradossale in un universo indifferente e sordo perché inconsapevole del morire e quindi immortale, non fosse altro che quella domanda assurda, cioè non udibile. In questo senso il malinteso è ineluttabile. In qualsiasi modo la domanda venga formulata non potrà mai essere intesa: chi la deve recepire, infatti, non potrà mai farlo in quanto essa è per lui priva di significato, proprio in quanto chiede un significato, si basa su un significato. In questo senso il vivente umano è condannato alla solitudine di chi parla una lingua che nessuno comprende; egli è lo straniero condannato a vivere in un mondo che non è la sua casa, ma solo il luogo dove morirà. Come dice Martha, “Questa casa non è la sua, infatti. Perché non è di nessuno. E nessuno vi potrà mai trovare calore e abbandono” il mondo è fatto “perché ci si muoia.” La casa in cui Jan, al pari di tutti gli umani, è un estraneo è l'essere, nel quale il vivente è accolto affinché, vivendo e perendo, il tutto si conservi, e il ciclo di generazione-distruzione si perpetui. L'essere è qui, intorno a noi e in noi, in ciascuno di noi viventi-morenti. È presente, ma anche assente, infinitamente lontano e inaccessibile, proprio perché così prossimo, intimo. L'esistenza umana è infatti l'essere stesso, di cui costituisce un frammento. Non c'è scarto, non c'è trascendenza e non c'è salvezza. Perché non c'è salvezza dalla vita. Non c'è salvezza alla solitudine eterna che è la vita. Jan e Martha cercano una risposta, costruiscono un progetto di fuga. Inutilmente. Perché nessuno può intendere il loro linguaggio. Essi sono i malintesi, e le loro domande di salvezza e di senso non hanno chi le ascolta. Per questo non vi è risposta. Se vi fosse una risposta l'assurdo della vita non sarebbe più tale. Ma la vita è assurda perché essa semplicemente è, e questo suo essere è fondato in sé stesso, senza un perché che lo trascenda. La vita (cioè l'essere delle cose che è presso ognuna di esse, ma anche infinitamente lontano da ciascuna nella loro individualità) non deve rendere conto del suo esistere, perché ogni domanda pretende di definire un senso dove non esiste altro senso che quello dell'essere. Le creature, quelle strane creature che sono i mortali, fanno domande che sono destinate a cadere nel vuoto perché chiedono di tracciare una direzione, un senso, là dove esistono tutti i sensi e quindi non ne esiste nessuno in particolare. E, soprattutto, non ne esiste nessuno che non sia quello del tutto. Nel senso dell'essere, infatti, sono contenuti tutti i sensi dei viventi, che non sono però i loro sensi, ma quelli dell'essere. Secondo Camus, a ciò non c'è scampo. Siamo condannati alla sconfitta.
Ma, forse, questo non è l'unico modo di vivere la condizione tragica nella quale ci troviamo. Non è necessario che la consapevolezza lucida di questa condizione si trasformi in una visione così disperata e disperante. Ma questo è un altro discorso che richiederebbe di uscire dal compito che ci siamo dati di commentare Le malentendu.
Lettori fissi
giovedì 29 ottobre 2009
sabato 10 ottobre 2009
In ricordo di nostro padre, Amilcare Caporalini
Queste pagine intendono ricordare nostro padre, Amilcare Caporalini, a venti anni dalla scomparsa. Il nostro omaggio prende le mosse da una fotografia scattata nel 1936 in Africa Orientale. Partendo da quel documento abbiamo cercato di ricostruire gli avvenimenti di cui fu protagonista e testimone, utilizzando i suoi racconti, i documenti che direttamente lo riguardano (in particolare il registro matricolare conservato presso l'Archivio di Stato di Macerata), nonché la documentazione e le testimonianze che sono reperibili da altre fonti. Si tratta degli anni che vanno dal 1936 al 1943, durante i quali nostro padre partecipò a ben tre campagne militari: in Africa Orientale per la conquista dell'Etiopia, in Albania e infine in Libia durante la seconda guerra mondiale.
La scelta di questo periodo della sua esistenza non significa che esso sia particolarmente rappresentativo della sua personalità (non è stato protagonista di nessun avvenimento straordinario, né ha compiuto atti eroici), ovvero che siano, almeno ai nostri occhi, meno importanti o peggio ancora trascurabili altri momenti e aspetti della sua esperienza (ad esempio il suo impegno civile e politico nel dopoguerra). Più semplicemente ci è sembrata interessante questa fase perché ci ha permesso di incrociare le “normali vicissitudini” di un giovane italiano preso nella morsa delle pulsioni imperialistiche e guerrafondaie del fascismo con i ricordi di molti altri che hanno vissuto quelle stesse vicende e quello stesso clima storico e morale.
Questa fotografia ritrae nostro padre in Africa Orientale durante la guerra italo-etiopica. Sul retro della foto si può leggere questa dedica autografa: “Al mio amico più caro amico Antonio in ricordo. Amilcare – Africa Orientale 25/5/1936/” L'originale dell'immagine che qui è riprodotta appartiene infatti a Franco Bartolini, figlio di quell'Antonio indicato nella dedica come “più caro amico” e destinatario della dedica. È alla non comune gentilezza di franco che dobbiamo la possibilità di disporre di questo documento.
Dalla dedica si evince quindi che la foto è stata scattata nella primavera del 1936. In quel momento nostro padre era un giovane uomo di quasi 26 anni, essendo nato il 6 agosto del 1910 a Buenos Aires, dove suo padre, Argeo, e sua madre Margherita Mezzelani erano emigrati nei primi anni del XIX secolo. (Nota 1 a piè di pagina) Amilcare era arrivato in Africa Orientale nel febbraio del '36. Dal registro matricolare conservato presso l'Archivio di Stato di Macerata (Nota 2 a piè di pagina) risulta infatti che era partito per l'Eritrea con l'ospedale da campo 410 e si era imbarcato a Napoli il 12 febbraio 1935 per sbarcare nel porto di Massaua il successivo 21 febbraio.
In più di un'occasione nostro padre ci raccontò il suo arrivo in quel porto del Mar Rosso e la straordinaria impressione che Massaua gli procurò, già nel vederla dal bastimento su cui viaggiava.
Abbiamo a disposizione una testimonianza che ci può aiutare a ricostruire l'animazione che si creava nel porto eritreo all'arrivo di una nave dall'Italia in quei mesi e provare a immaginare, quindi, che la stessa situazione si creò all'arrivo della nave che trasportava Amilcare. Scrive infatti il maggiore Morosini nel suo diario pubblicato sul blog http://leritreadelmaggioremorosini.blogspot.com/ :
“L’arrivo di una nave nel porto di Massaua, uno dei più importanti del Mar Rosso, era sempre un avvenimento. Bastava che un qualsiasi mercantile gettasse l’ancora di fianco alla Banchina, come era familiarmente chiamato lungomare Umberto I, perché decine di persone si accalcassero sul molo, sgomitando per conquistare la prima fila vicino alla passerella.
I più veloci ad arrivare erano i ragazzini eritrei, alla ricerca di una qualsiasi valigia da portare fino al più vicino albergo in cambio di una manciata di centesimi. Poi era il turno dei venditori d’acqua e dei commercianti arabi e nel giro di qualche minuto si avvicinavano alla banchina anche gli italiani, a partire dagli ispettori della dogana, che si facevano largo a pedate fra gli scugnizzi e i facchini del porto.
Quando poi attraccava da Genova il postale celere della Compagnia Italiana Transatlantica oppure il piroscafo mensile del Lloyd Triestino, l’attesa diventava frenetica. La nave era ancora impegnata nelle manovre d’ingresso nel porto e si apprestava a oltrepassare il promontorio di Abd el Cader, in direzione delle banchine Salvago Raggi e Regina Elena, ma già il lungomare brulicava di folla.
Vedevi accorrere i soldati in attesa della posta, i fattorini degli uffici coloniali che aspettavano il funzionario di turno dall’Italia, mentre i factotum degli alberghi cittadini – dal Grande Albergo al Savoia, fino ai più modesti Ghedém e Manetti – scrutavano come rapaci i passeggeri che scendevano dalla nave, in cerca di clienti.
Lungo la Banchina non mancava neppure la solita dozzina di sfaccendati, che passeggiavano svogliatamente su è giù per il molo. Per lo più era gente che campava di piccoli traffici, ai margini della legge. Alcuni avevano trasferito in Africa Orientale il millenario mestiere del ruffiano e incuranti delle occhiatacce se ne andavano per la banchina tenendo a braccetto donne dal trucco pesante e dallo sguardo malizioso. Così, tanto per fare un po’ di réclame alla mercanzia.”
Non è difficile immaginare come questa vivacità potesse impressionare i soldati che arrivavano in quei luoghi esotici, dopo una decina di giorni di viaggio per mare. Nel 1935, scrive sempre Morosini, è un susseguirsi di frenetico di arrivi, nell'imminenza della guerra di cui si intuisce l'avvicinarsi ineluttabile: “Nel porto di Massaua i convogli militari si alternano ai mercantili e ai piroscafi che, dopo un lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, il canale di Suez e il Mar Rosso, scaricano incessantemente merci e passeggeri diretti alla colonia.” Chi, come nostro padre, arriva del tutto impreparato in quei luoghi non può che subire i contraccolpi del clima canicolare: a differenza di Asmara e delle altre città dell'altipiano, dove il clima è mite, quasi costantemente primaverile, sulla costa la temperatura è infatti insopportabilmente elevata fin dalle prime ore del mattino.
Alcuni scatti conservati nel Museo di fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo ci aiutano a immaginarci l'ambiente di Massaua.
Questa fotografia fu scattata proprio nel 1935 da Federico Pantelani durante il suo viaggio in Africa, e ritrae la nave da carico “Campidoglio” nel porto di Massaua.
Un'altra immagine, tratta dallo stesso reportage di Federico Pantelani, ci mostra invece le imbarcazioni dei pescatori locali nel porto eritreo:
Amilcare rimase in Africa Orientale fino all'inizio del 1937, quando rimpatriò imbarcandosi, il 4 febbraio, dal medesimo porto di Massaua per giungere a Napoli il successivo 14 febbraio. La foto riprodotta all'inizio e le altre che seguono si riferiscono a questo periodo di circa un anno in cui partecipò alle operazioni di guerra in Etiopia.
Non siamo in grado di ricostruire gli spostamenti del suo reparto. Le immagini ce lo mostrano durante momenti di riposo, da solo o con alcuni compagni. Il suo atteggiamento sembra indicare una stato d'animo sereno. Non bisogna dimenticare però che la guerra fu assai crudele. Nostro padre ce ne parlò sempre in modo assai negativo, rievocando alcuni episodi che per noi bambini assumevano il sapore dell'avventura esotica. Il più impressionante si riferisce alla scoperta di cadaveri di animali e indigeni nel torrente dove un reparto aveva sostato e addirittura prelevato dell'acqua. La sezione di disinfezione di cui faceva parte Amilcare dovette provvedere al risanamento dell'area. Non si può fare a meno, osservando la foto quasi idillica che lo ritrae immerso fino al petto nell'acqua di un torrente, di pensare a quell'episodio e all'orrore che è sempre in agguato in una guerra.
Congedato nel febbraio del 1937, Amilcare viene richiamato alle armi il 30 agosto del 1939, e parte dal porto di Brindisi per l'Albania il 15 ottobre dello stesso anno. Sbarcato a Durazzo il 17 ottobre, resterà in Albania fino al Gennaio 18 gennaio 1940, quando raggiungerà il porto di Bari. Anche in questo caso, l'invasione del paese balcanico rispondeva ad un disegno di prestigio imperialistico del fascismo, che voleva in questo modo riequilibrare il rapporto con l'alleato tedesco. Hitler, infatti, aveva in poco tempo portato a termine l'annessione dell'Austria e della Cecoslovacchia.
In questo caso non disponiamo di immagini di nostro padre durante i tre mesi circa di permanenza in territorio albanese. Sappiamo solo che faceva parte del 31^ nucleo chirurgico della 6^ compagnia di sanità del Disttaccamento di Ancona. Poiché l'invasione era stata portata a termine nel giro di cinque giorni a partire dal 7 aprile 1939, è evidente che la funzione di questo reparto era esclusivamente di tipo logistico. In ogni caso esso risultava estraneo alle operazioni belliche, ormai concluse da tempo. Lo conferma anche il Registro matricolare che non cita tra le operazioni di guerra a cui Amilcare ha partecipato l'annessione dell'Albania.
La foto Alinari ritrae le truppe italiane durante le operazioni di invasione dell'Albania dell'aprile 1939.
Passano pochi mesi (siamo nel maggio del 1940) e nostro padre viene di nuovo richiamato alle armi. Aggregato alla 6^ compagnia di sanità del Distaccamento di Ancona, parte il 4 giugno con la 17^ sezione di Disinfezione dal porto di Napoli per Tripoli, dove giunge il successivo 6 giugno. Rimarrà in Libia fino al 24 settembre 1941, spesso in zona di operazioni. Di quel lungo periodo di vita ricordava spesso l'emergere di sentimenti di sfiducia e ostilità sempre più manifesti nei confronti della guerra voluta da Mussolini. A volte questi pensieri assumevano la forma del dileggio per la retorica fascista. Un esempio di questo discredito sempre più esteso verso le sparate della propaganda fascista si verifica durante uno dei numerosi bombardamenti di Tripoli. Le bombe provocano il panico in un commilitone che fino a quel momento aveva dimostrato entusiastica adesione alle parole d'ordine del regime, in particolare quella secondo cui Mussolini con la guerra stava “allargando il mediterraneo” per il popolo italiano. Mentre il soldato trema di paura sotto le bombe inglesi, i suoi commilitoni lo sbeffeggiano dicendogli: “adesso te lo allargano loro, il Mediterraneo!” Nel registro matricolare non è riportato alcun dato sul luogo di imbarco e quello di arrivo, il che potrebbe confermare il racconto di un viaggio aereo molto pericoloso per l'incombente presenza della caccia inglese, ormai padrona dei cieli.
Successivamente nostro padre seguirà la vicenda di molti altri italiani, che in seguito all'armistizio dell'otto settembre 1943, abbandoneranno l'esercito sottraendosi ai richiami e alle minacce della RSI e dei tedeschi.
Rosanna, Mauro e Donato Caporalini
ottobre 2009
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nota 1. La famiglia fu poi costretta a fare ritorno in patria quando l'Italia entrò nel primo conflitto mondiale. Secondo la testimonianze di nostro padre, il rientro in Italia fu praticamente coatto: il governo italiano pretendeva infatti il rimpatrio di tutti coloro che erano idonei alla leva. L'orientamento politico di nostro nonno era anarchicheggiante, caratterizzato però da tracce di nostalgia per il sovversivismo di matrice repubblicana e contemporaneamente, venato da simpatie per il socialismo, come dimostra la scelta di chiamare Amilcare nostro padre come Amilcare Cipriani, il celebre “recluso di Portolongone” e “colonnello della Comune”. Siamo portati perciò a credere che il rientro dei nostri familiari non fu affatto spontaneo e patriottico. D'altra parte, nostro padre ci raccontava che non appena arrivati al porto di Genova, presumibilmente nell'autunno del 1915, nostro nonno fu prelevato da una scialuppa dell'esercito insieme agli altri uomini in età di leva prima ancora che il piroscafo attraccasse. Lo avrebbero rivisto solo molti mesi più tardi, in occasione della prima licenza concessa.
nota 2. I dati e contrassegni personali del Registro lo descrivono così: statura: metri 1, 55 e ½; torace: metri 0,84; naso: piccolo; mento: ovale; occhi: castani; colorito: bruno; dentatura: sana; arte o professione: sarto; sa leggere e scrivere.
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nota 1. La famiglia fu poi costretta a fare ritorno in patria quando l'Italia entrò nel primo conflitto mondiale. Secondo la testimonianze di nostro padre, il rientro in Italia fu praticamente coatto: il governo italiano pretendeva infatti il rimpatrio di tutti coloro che erano idonei alla leva. L'orientamento politico di nostro nonno era anarchicheggiante, caratterizzato però da tracce di nostalgia per il sovversivismo di matrice repubblicana e contemporaneamente, venato da simpatie per il socialismo, come dimostra la scelta di chiamare Amilcare nostro padre come Amilcare Cipriani, il celebre “recluso di Portolongone” e “colonnello della Comune”. Siamo portati perciò a credere che il rientro dei nostri familiari non fu affatto spontaneo e patriottico. D'altra parte, nostro padre ci raccontava che non appena arrivati al porto di Genova, presumibilmente nell'autunno del 1915, nostro nonno fu prelevato da una scialuppa dell'esercito insieme agli altri uomini in età di leva prima ancora che il piroscafo attraccasse. Lo avrebbero rivisto solo molti mesi più tardi, in occasione della prima licenza concessa.
nota 2. I dati e contrassegni personali del Registro lo descrivono così: statura: metri 1, 55 e ½; torace: metri 0,84; naso: piccolo; mento: ovale; occhi: castani; colorito: bruno; dentatura: sana; arte o professione: sarto; sa leggere e scrivere.
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